Un Luogo Comune

per non dare nulla per scontato

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30 maggio
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Rosita: 1 Premio Scribo Ergo Sum 2012

[Pubblico qui il racconto con cui ho vinto (eheheh) il primo premio del concorso letterario Scribo Ergo Sum, a tema la violenza sulle donne, organizzato nel Liceo Classico Paolo Sarpi di Bergamo.]

La luce squarciava a fasci il buio penetrandolo dalle persiane e andava ad accarezzare sui fianchi Rosita, che svestita per metà si rigirava nel letto sudicio. Lo stillicidio del traffico pomeridiano la cullava nella sua piccola tana di città. I capelli arruffati e scurissimi scendevano dal materasso e si adagiavano disordinati sul pavimento, il rossetto si spandeva sul mento lasciando le labbra minute a un delicato rosa. Ogni tanto apriva un chiaro occhio verde, appesantito dal mascara, e squadrava la stanza, con il viso curioso di una bambina. Una luce verdastra all’improvviso sul muro e il vibrare del cellulare: Rosita gettò la mano sul comodino e rispose al numero sconosciuto con voce fioca e bassa: – Pronto?… Sì sono io. – in risposta un ronzio di voce maschile si diffondeva per la camera – Sì, faccio praticamente tutto, tesoro. In quanti siete? Solo tu? Faccio 100, 110 … Ok, quando? … No, stasera sono piena. Facciamo domani? – La voce maschile lanciò uno “stronza di una troia” e chiuse la chiamata, Rosita sbuffò, ma senza farne un dramma, era abituata.

Aveva mentito allo sconosciuto: quella sera non aveva appuntamenti, sarebbe solo arrivato lui, l’Antonio. Si presentò puntuale; come bussò Rosita lo guardò dallo spioncino e gli chiese con il suo accento sudamericano se aveva i documenti. Aveva i capelli cortissimi e la testa rotonda, non era alto, ma molto robusto e spallato, dalla lente a bolla dello spioncino si notavano particolarmente i muscoli sviluppati; mantenendo lo sguardo accigliato e fisso non rispose alla domanda ed entrò. Rosita lo guardò spaventata e domandò ancora dei documenti, lui sorrise, la abbracciò e la baciò frettoloso. Scostandosi a fatica Rosita alzò la voce: – Vuoi rispondermi? Li hai o no i miei documenti? – Antonio rispose con tranquillità e un forte accento milanese – Primo: non sono mica tuoi i documenti; secondo: io voglio sempre il mio anticipo –. Rosita strinse gli occhi, Antonio soffocò il “no!” della ragazza con un bacio violento e, presala per i fianchi, la gettò sul materasso. La luce si faceva più fioca e illuminava a intermittenza il volto terrorizzato e scuro di Rosita, ora in vista, ora coperto dall’ombra di Antonio, prima sul cuscino, poi per terra, bagnato di sudore. Quando se ne andò Antonio, rimase rannicchiata tra le lenzuola sporche di sangue a piangere sui lividi; singhiozzi interrotti e soffocati scandivano il silenzio. Non aveva il coraggio di chiamare il pronto soccorso, troppi rischi.

Era della polizia, il bastardo, lo sapeva per certo, lo aveva sentito dire per strada da qualche amica e questo la inquietava, ma le dava anche un po’ di speranza: se era uno sbirro voleva dire che aveva davvero la possibilità di darle i documenti. Eppure erano tre mesi che non arrivavano, erano tre mesi di incontri segretissimi, minacce, violenze, e alla fine le toccava dargliela. Gratis, come anticipo. Quando le faceva davvero male si faceva prestare i documenti da una conoscente Italiana e andava all’ospedale: stavolta tornando a casa, si fermò davanti alla farmacia. – In effetti un po’ di svarioni … Mal di testa … – Pensava – Per averlo usato, l’ho sempre usato … Non vorrei spendere soldi inutilmente, però … – Alla fine fece il test di gravidanza: Vedendo le due linee rosse si lasciò cadere. Le altre volte aveva sempre usato il profilattico: Era figlio del bastardo. Assunse un’espressione di paura e odio, il suo volto riflesso nelle ante della doccia era atterrito, ma bellissimo. Era figlio del bastardo. Dopo mezzora passata a piangere sulle piastrelle del bagno si alzò, sentiva il bisogno di uscire. Con la borsa stretta tra le braccia attraversò il parco, verso la stazione. Girò più volte intorno alle aiuole e si sedette sulla panchina: doveva abortire.

Trovati documenti altrui, prese in fretta il 9 e andò all’ospedale, fece la coda per parlare con la ginecologa e le disse della sua gravidanza, senza raccontare i particolari, ma insistendo sulla sua necessità di abortire: non aveva soldi, era una puttana, non poteva tenerlo … – Senta – La interruppe secca la dottoressa – La capisco, ma io queste cose non le faccio, sono obbiettrice. Mi racconti piuttosto come è successo e vedremo cosa fare -. Non sapeva se odiarla e andarsene da qualcun altro o cominciare a raccontare. Strinse gli occhi, fissò l’orologio che batteva lento i secondi e, vinta la paura, parlò: ne aveva bisogno, la solitudine era insopportabile. Parlò della fame, del viaggio clandestino, dei sogni di ragazzina, parlò della sua famiglia, della madre defunta e degli stronzi che l’avevano inchiodata alla strada, parlò della vergogna, della necessità di soldi, delle finte amicizie, delle poche conoscenze e parlò di Antonio. La ginecologa strinse la bocca, abbassò le sopracciglia, cercò di trattenersi, ma pianse. Con gli occhi che brillavano prese la mano si Rosita e le disse: – Senti, io non posso lasciarti andare di qui senza fare nulla. Mio fratello ha un bar, a Catania, se vuoi puoi scappare là e metterti a lavorare in nero, poi deciderai cosa fare della creatura. Ti pago il treno e tutto il resto, devi solo chiamarmi. -. La bella sudamericana prese il biglietto da visita con il numero di telefono e se ne andò, riflettendo. Avrebbe detto di no, c’erano troppi pericoli, troppi controlli, ma ne valeva la pena se c’era anche solo una piccola possibilità di cambiare la propria vita. Tra questi pensieri si accorse stranamente che non le importava troppo del suo destino. S’accorse che era qualcos’altro che la spingeva a voler prendere il treno e scappare al Sud, la vita che voleva salvare non era la sua, era quella del bambino, che all’improvviso non vedeva più come figlio del bastardo, ma come suo figlio: s’accorse che amava quel bambino più di sé stessa, era l’unica persona che aveva, l’unica speranza. Rosita si fermò sul marciapiede, guardò verso l’ospedale e corse dentro, si fece spazio tra la coda e abbracciò la ginecologa che con una sola frase aveva cambiato la sua esistenza.

Questa è la storia di una donna come tante altre, che, venuta da lontano, venne fatta schiava delle notti e dei porci e che venne salvata soltanto dal miracolo della Vita, da un incontro inaspettato. Questa è la storia che ti raccontano gli occhi grandi e verdi di una bella barista a Catania. Questa è la storia di mia madre, Rosita.

25 dicembre
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Candido Natale

Alessandro

Le luci dell’albero di plastica si accendono a intermittenza. Alessandro saluta i parenti che se ne vanno. Zia Emilia, Zia Vittoria, Nonna Francesca, Nonno Giovanni, Nonna Emilia con dei baci sule guance, i nipotini vari, Marco, Marta, Maria con una carezza sulla testa – tranne per Marco, che si vergogna, è grande lui- e le cugine Simona e Natalie con degli abbracci. I parenti che vengono dalle Marche resteranno a dormire stanotte, ma adesso sono al cinema con Giorgia, la sua compagna. Alessandro è solo. Si guarda intorno, non ha voglia di sparecchiare il tavolo, non ha voglia di far la lavastoviglie, gli viene la nausea solamente a guardare gli avanzi dei tortelloni, è pienissimo: non cenerà nemmeno. È lì, sul divano, a far niente. Circondato dalle carte dei regali strappate, dai vassoi degli antipasti, dai bicchierini di aperitivi. Ma non è il disordine che lo inquieta. Sente di dover sistemare, ma non se ne cura. Sente che dovrebbe far qualcosa, ma è Natale. Deve consacrare a Babbo Natale anche quell’oretta di solitudine prima della sera, ma non sa nemmeno cosa voglia dire “consacrare”, così sta fermo, a far niente. Guarda fisso il Televisore spento. No, dannazione, ancora quello sconforto! Pensa ai regali per scacciarlo. Pensa alla sua nuova penna di Mont Blanc, farà un figurone al lavoro. Pensa al cesto di cibo preconfezionato, non è un dono originale, ma quel panettone sarà costato un occhio, è di classe! Pensa all’iPod Classic con un sacco di memoria, prova a rovistare i suoi gusti musicali, ma non arriverà mai a 160 gigabyte. Poi, di soppiatto, ecco ancora quell’inquietudine aleggiare tra i precedenti pensieri artificiali. Uffa, non gli resta che accendere la TV. Evvai con i film di Italia1 sullo “Spirito del Natale”, spera che il Grinch gli potrà infondere un po’ di tepore bambinesco, ma non fa che continuare a chiedersi in che cosa consista questo “Spirito del Natale” che risolve i problemi di Santa Claus. Sono le 20:49 e finalmente soccombe all’inquietudine. Sente scoppiare quella domanda di fondo dentro di sé. Si alza, esce, vorrebbe strappare le lucette dal terrazzo, vorrebbe sparare ai babbi sulle finestre. Ma sente la macchina di Giorgia arrivare. Natale è stare con la famiglia, ecco! La solitudine rimase sola, se ne andò da quella casa e Alessandro visse per sempre felice e incosciente.

Anna

Fa un freddo boia. Fa davvero freddo, cazzo. Anna guarda le luci che si accendono in centro appoggiata contro il muro. Odia il Natale, non serve a niente, se non a vendere roba e oltretutto le chiudono anche i posti per mangiare. Ha fame e freddo, per colpa del Natale. Non ha nessun posto dove andare, quindi subisce il sopruso festivo in Centro, zona Stazione, l’unico posto in cui sa arrivare. E adesso, dove sono tutti? Ha ancora della roba da dar via prima della fine dell’anno, ma nessuno compra. Nessuno compra con quel freddo suino: saranno nelle loro case borghesi di ‘sta minchia. Ma la sua casa è lì, fuori dalla Stazione, anche a Natale, anche se fa freddo. Ha le labbra screpolate e se le lecca per alleviare il dolore, ma appena si asciuga la saliva queste si seccano di più e si solcano, facendo uscire del sangue. Ci mancava questa. Non sa cosa fare, è lì per far presenza, è lì per far presidio, è lì per protesta? Perché diavolo è lì? Non ci vuole pensare e si accende una sigaretta, sollievo momentaneo di tepore. Dopo due boccate la sigaretta è già sporca del sangue delle labbra. Sente in lontananza delle campane che suonano per la messa, sputa in terra per automatismo. Una bestemmia, un’altra bestemmia, ma la verità è che sta male. Sta tremendamente male e non ne può più di stare lì. Non le basta più una sigaretta, della roba da vendere e una ciccata per terra. Non le basta più niente. Si accorge che è appena finita la messa alla chiesa della Grazie. Istintivamente decide di intrufolarsi tra la gente e nascondersi in chiesa, fa veramente troppo freddo, normalmente brucerebbe quell’edificio che non paga l’ICI, ma se la può scaldare anche solo per una notte ben venga. Un’ultima bestemmia ed è dentro. In realtà fa freddo anche lì, un po’ meno però. Si getta silenziosamente ai cerini accesi e ci mette sopra le mani violacee: che sollievo, si sarebbe gelato anche il sangue se arrivava un po’ dopo. Guarda sopra ai cerini e vede la Madonna in un affresco, sopra la scritta “Tota pulchra est Maria”. Anna piange, all’improvviso: non ne può veramente più, allora comincia a parlare con la Madonna, tanto non la vede nessuno: “Eccomi, guardami, non ti faccio schifo? Perché io mi faccio schifo, faccio veramente cagare. Sono sporca, testarda, non sai quante minchiate ho fatto, non sai quanto spesso le ho ripetute, apposta, per il gusto di sbagliare ed eccomi qui. Ridotta a una sottospecie di essere umano, piegata su dei cerini per scaldarmi, a parlare con un affresco. Ma per te è facile, no? Tu sei lì, seduta sulla tua bella nuvoletta con le mani alzate, il velo azzurro e gli occhi strafatti, io invece sono nella merda. E non so cosa fare. Non so chi sono. Non so nulla.” Pianti, lacrime. Era tanto che non piangeva, ne aveva bisogno. Poi, da dietro un bancone compare un pretino, la guarda: ha sentito tutto. Va da lei, la abbraccia senza dire niente, si mette a piangere anche lui. Anna è spaventata e confusa. Il prete la guarda negli occhi e le accende il riscaldamento, può dormire lì stanotte. Prima di vederlo uscire Anna dice ad alta voce, facendo rimbombare le parole lentamente nella chiesa: “Eccomi, sono la serva del Signore“.

 

15 ottobre
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Preghiera

Roma, quindici ottobre 2011. Tantissime persone si riversano nella capitale per manifestare contro alla crisi, contro alla risposta che è stata data alla crisi dai potenti, contro alla logorìa di questo decennio. La cosa migliore ce poteva capitare: un sintomo di vita in un mondo morto, zaino in spalla e via, a ricostruire ciò che più è andato in crisi: l’uomo. Nella prima mattinata tutto a posto, si cammina, si sfila, si balla, si sta in allegria, si sta insieme, armati solo di domande. Poi ecco quello che non doveva capitare. Le ali a destra e a sinistra del corteo corrono nelle strade, al centro c’è fibrillazione, sta succedendo qualcosa di sbagliato. Dei bastardi incappucciati si sono uniti, non hanno urlato, non hanno parlato, hanno solo fatto. Vetrine martellate, auto esplose, feriti in strada, la polizia s’innervosisce. Il resto è caos, e il caos non si può raccontare. Il caos c’è e basta e non ha giustificazioni, se non quella della sua presenza stessa, che non fa che creare un circolo vizioso senza fine. Volti senza nome, o meglio felpe nere senza contenuto, provenienti da nessun posto , bastardi senza vita, pagati da chissachì per chissà quale fine, hanno rovinato tutto. Hanno massacrato gli intenti di un popolo, hanno fatto fare la solita figura di merda all’Italia e la cosa più sconcertante è che l’hanno fatto senza alcun motivo. Io mi chiedo come può l’uomo, davanti a qualcosa di terribile e drammatico come il periodo che stiamo vivendo, rispondere senza pietà. Come 100 bastardi riescono a fare quello che fanno senza ricordarsi di essere uomini, prima che black bloc. Questo è il dramma, quello della fragilità dell’uomo. E davanti a questo dramma non posso che pregare, che chiedere l’aiuto del Dio degli spietati, il Padre di tutti i bastardi, colui che ha dato la vita anche per loro, il Signore dei cortei, il Cristo delle violenze , lo Spirito del non-senso. “Signore, perdonali e aiutami a perdonarli, donami questa grazia. Perché non sanno quello che fanno”

07 settembre
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Lubecca

È un giorno piovoso, ormai da ore viene giù a singhiozzi di un quarto d’ora ciascuno. Sono dietro alla finestra di un albergo trovato dopo tre mezz’ore di vagabondaggio automobilistico. Oltre il terrazzo c’è un pasticcio architettonico. Un palazzo di almeno trenta metri (non sono mai stato bravo con le stime) giallo panna, azzurro acqua e grigio chiaro, il tutto rigorosamente incasellato in una rete di mattoni e cornicioni rettangolari. Innegabilmente stona con il cielo grigio e malinconico della città del nord. È difficile da percepire, ma le nuvole più vicine si muovono, sullo sfondo delle gigantesche masse di vapore retrostanti, questo provoca un grigino diffuso: nemmeno una ferita di azzurro. In lontananza altri palazzi-anni’90 come quello precedentemente descritto, ma di colori diversi, ricordano gli stili preimpostati per il layout delle diapositive nelle vecchie edizioni di PowerPoint, quelle con tante opzioni, tutte uguali, cambiava solo la combinazione di colori che si poteva intuire da tre quadratini che indicavano le principali tonalità. Così è quest’angolo di Lubecca, inutilmente complicato e poco fantasioso, ma articolato e a suo modo, creativo.

Nella “straße” qua sotto qualcuno va troppo di fretta, qualcuno con troppa calma, qualcuno se ne frega, qualcuno va al lavoro, qualcuno torna a casa, qualcuno va in centro, qualcuno va in chiesa, ma in realtà nessuno arriverà d qualche parte.

Mio fratello gioca con le carte dei personaggi del penultimo fil Disney, crea nuove avventure. Io faccio la stessa cosa, ma uso la le macchine che sfrecciano a velocità disumane (sembrerà strano ma cinquanta all’ora è disumano) e i loro conducenti, le loro vite.

Una sirena, pioggia e il solito rumore di traffico.

“Ed osservo passare il mondo in chiave estetica (…) se questo non ha senso guardo voi, le vostre vite. Mi chiedo “la bellezza che cos’è?”, ma resto qui con un bouquet di viole che non gradirai.”

F. Bianconi (Baustelle) – Bouquet  

25 luglio
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Schifosissime e disordinate produzione da mare.

Un vecchio

Appoggio la bicicletta alla panchina e mi siedo nello spazio libero. Con calma slaccio il marsupio e lo appoggio sulle gambe, posiziono la schiena nel modo più comodo, calco gli occhiali sul naso e osservo, come tutti i giorni, osservo.
La colonna sonora del mio pomeriggio è l’infrangersi delle onde sulla spiaggia mescolato a tutte le voci dei bagnanti; striduli di bambini, conversazioni telefoniche e non di ragazzi, chiacchiere delle signore: tutto si fonde perfettamente in un rumore di folla, una radiazione di fondo.
Alzo piano lo sguardo sul mare fino a vedere l’orizzonte, poi il cielo: bella giornata, solo poche nuvole bianche in lontananza, per il resto gradazioni di azzurro.
I sassi dell’inutilizzata spiaggia pubblica sono bagnati in dissolvenza: vicino al mare sono più scuri e via via si schiariscono in maniera direttamente proporzionale alle probabilità che le onde raggiungano determinati livelli.
La spiaggia è lastricata di lattine scolorite e compresse, tutte accovacciate su di esse stesse, come a imitare i sassi. Le bottiglie fanno parte del paesaggio. Trasparenti, blu, verdi da cinquanta centilitri, da un litro o addirittura da due, sono lì, ingozzate di sabbia, soffocate dai sassi, sporche, opache. Solo io, in silenzio, le consolo ogni giorno.
La macchia mediterranea conquista l’ambiente con i suoi colori spenti, il suo profumo arido e accogliente, umilmente mi mostra degli arbusti, dei pini marittimi, degli aghi e delle pigne.
Due ragazzini con i capelli ingellati, i muscoletti all’aria e i costumacci fosforescenti si siedono cinque metri più in là, accendono una sigaretta e parlano di avventure in discoteca, commentano solo alcune parti delle ragazze e insultano i poveri professori.
In bilico sull’orizzonte una nave merci solca il mar Ligure; immagino a bordo qualche uomo e tanta merce ordinata a caso nei container cinesi impolverati.

La Sigaretta spenta, la marea più vicina, il cielo più scuro, il mare inquietante.
Un gabbiano plana leggero e tranquillo sul mare, come di ritorno da una giornata di pesca, ma all’improvviso non riesce più a muoversi: troppo tardi per agitare le ali. Lancia un grido e precipita verso l’acqua, rotea su sé stesso per colpa delle ali ancora spiegate, cade sempre più veloce, il mare è sempre più vicino, sempre più spietato. Un tonfo; le ali troppo bagnate, il becco pieno d’acqua, si sposta con uno sforzo tremendo di qualche decimetro e affoga, il gabbiano, cade lentamente verso il fondo, ucciso dallo stesso vento che lo faceva planare libero fino a pochi secondi fa.

Io, unico testimone dell’assassinio, mi piego verso la balaustra e raccolgo i miei pensieri sparsi a terra. Un altro giorno è andato e io sono morto da sempre.

“…E in ogni estate trovo che
un po’ di morte in fondo c è”
Francesco Bianconi (Baustelle) – Réclame

Un vico

Stasera ho deciso di perdermi. A passo spedito ho superato il lungomare e ho raggiunto il centro città, oltrepassando a testa alta i miei coetanei obbligati a divertirsi dalla logica spietata del Sabato sera. Mi sono imbucato in una trasversale del budello (chiamato anche “Carruggio” il budello è la via principale dei borghi liguri. È una zona pedonale costeggiata da bar e negozi, alla sera è il punto di riferimento di turisti e abitanti) e mi sono allontanato dalla confusione che sfuma sempre di più ed ecco qui un calle.
Stretto, incastrato tra le case al mare degli impiegati, gli alberghi tre\quattro stelle e i negozi di roba da spiaggia, il calle è muto, nessuno lo percorre.
Noto, incastonata nel muro, una Madonna con dei fiori di Rosmarino e l’incisione “Ave Maria”. Adoro la religiosità semplice e profonda di quell’angolo di strada, di quella vecchina che molto probabilmente non ha mai studiato teologia e non è mai stata in Vaticano a discuterne, ma con una fede immensa ha sistemato lì quel profumato ramo di rosmarino fiorito: la preghiera più bella che potesse fare.
Oltre la Madonnina c’è la targa con il nome del calle che recita a caratteri spudoratamente fascisti: “Vico Gerolamo Guardone”; è curioso quel nome, mi chiedo se “Guardone” sia il nome o la caratteristica. Immagino un Gerolamo che, arrampicato sul muro del calle, spiando l’amata cambiarsi d’abito per la serata (la quale damigella borghese ovviamente non ricambiava l’amore semplice e povero del figlio del fruttivendolo), cadde e morì lì, con ancora in volto l’espressione estasiata. Così la popolazione ha fatto diventare Gerolamo leggenda e dalla leggenda è spuntato il nome del vico.
Lascio lì la fantasia e proseguo nel calle che mi ha già raccontato abbastanza storie. Sembra che un poco frequentato angolo di città largo due metri sia lì per guardare succedere le cose semplici della gente semplice e raccontarle ai passanti che vogliono ascoltarle, sembra che sia lì per rimanerci in eterno, come il rumore delle onde o il canto delle cicale.
Comincia a fare freddo e torno a casa.

La spiaggia

Sassi,
penne,
pescatori,
tangenti e bustarelle,
sguardi,
sacchi di plastica,
tronchi e frantumi,
uno scoglio e
il mare.
L’azzurro magnanimo,
la gigantesca semplicità
della manifestazione
di qualcosa di più grande.
Taccio (incredibilmente!)
e sento che faccio parte
di tutto ciò.
Sono l’onda che si abbandona alla spiaggia,
sono i gabbiani in cielo,
sono il vento,
sono un’ape,
sono un fiore,
sono gli ossi di seppia.
Volto all’immenso
innalzo un’assurda
specie di preghiera
che sembra quasi
Amore.