Un Luogo Comune

per non dare nulla per scontato

Archive for the 'Racconti' Category

12 maggio
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La verità

Un bagliore, un’esplosione improvvisa di luce cauta si fa spazio tra le sagome buie degli edifici più lontani. Nessun tuono, nessun rombo, nessun suono la segue. Il vuoto si ridisegna dietro il lampione.
In una grande città giapponese, un ragazzo sui 24 anni passa una paglia al compare grassoccio, mentre sui sedili posteriori si siedono due ragazze appena maggiorenni, la prima bisbiglia qualcosa alla seconda, che ride con un movimento del capo in avanti e appoggia la borsetta succinta.
A varie miglia da qui, un fischio – forse un residuo di ordigni del controspionaggio sovietico – si spande nel tempo, risulta altalenante, ora lo distingui chiaramente, ora ti sembra di immaginarlo; a un tratto una di queste oscillazioni d’intensità sonora prolunga la sua componente più alta, che invece di ridiscendere, aumenta, aumenta, è vicino, vicinissimo, è lì, assordante, ti schiaffeggi le orecchie, urli, persiste, aumenta. Deflagra.
Il rumore di una sveglia portatile distingue i secondi di una cameretta per convenzione, illuminato da chiara luce pomeridiana, oltre ad esso, giù nel cortile, dei ragazzini stanno giocando gentili. P. sta in porta, piega le ginocchia fragili e molleggia sulle articolazioni, ancheggiando da destra a sinistra di moto armonico, sguardo fisso sul pallone, come quelli veri.
Inizia a piovere. Le gocce – oltremodo grosse, primato stagionale – devastano un campicello, sciolgono lo strato di terra nuova, messa lì per rifare il prato, disperdono i semi, annegano i boccioli, tutto scorre sulla terra argillosa, fottutamente impermeabile, che sta lì da sempre.
Una donna si volta sotto un portico, guardandosi alle spalle.
Corpi morti, corpi morti, corpi morti dappertutto, corpi morti che giacciono su campi di erbaccia grigia scura, sottile, infida. Corpi morti sugli aerei di linea, corpi morti in ascensore.
“Oh! Pé! Te conviene de girà ‘l cassone d’alincontrario! Ahò, me senti!? Ah, stordito de uno…” grida tendendo marziale il braccio nel frastuono del mercato un uomo di corporatura allenata e nel contempo devastata dal  lavoro, sudando anche le bretelle.
Una gigantesca folla si  divincola per le strade di una città mitteleuropea, qui, là, urla, s’agita, brulica, esasperata. Pugni e manifesti, volantini e voci megafonate, qualche lattina, bottiglie, cori incessanti, sgolati sulle stesse ritmiche. Nessuna domanda, se non un “Ricordati di me” spaurito. Bisbigliato.

“R., mi dica la verità, lei ha studiato? La verità”. Lo sguardo del docente esaurito e paziente sul banco di fronte alla cattadera, distante qualche metro, cade lieve e decisivo nell’interrogazione, la classe muta spia da dietro l’astuccio, senza far rumore. Lo studentello sbarbato ed arrogante nella sua ignoranza si guarda attorno, poi l’angoscia se ne va, sorride appena di soppiatto e risponde: “La verità, professore? La verità è che

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22 aprile
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Pensarsi le cose

[Cronache dalla provincia]

Stasera potresti fare un salto da me, viene anche *****.

“Il fatto è che non mi sento tanto bene.” Ti arrampichi su tutti i vetri della scuola per eludere il mio invito, quantomeno mondano, quantomeno terrestre.

Lo so benissimo che non è vero, vabbè riposati pure.

“Eh sì…” rispondi come per assentire, senza essere d’accordo.

Ma io lo so cosa fai tu la sera. Tu ti metti lì e ti pensi le cose. Sì! Stai seduto lì a pensarti le cose. Seduto, appoggiato, con un libro aperto, con il libro chiuso, passeggi… Ti pensi le cose. Ed io t’invidio. Perché io non ho mai il tempo di pensarmi le cose. Diciamo che me le penso, ma tu le pensi in modo diverso. Sembra quasi che per te pensarti le cose sia quotidiano, semplice. Io quando mi penso le cose me le penso per astrazione e mi sento male, mi sento alienato, mi sembro un intellettuale della generazioneduepuntozero. Tu, tu invece le pensi senza velleità le cose ed è la cosa più concreta che ci sia. Per te è come zappare la terra pensare le cose.

Io, quando penso le cose, ho bisogno di vederle, di toccarle, di sentirle. Per te deve essere facile, come guidare, come prendere il tram delle valli, per me è come vomitare. ed escono sempre le solite banalità.

05 marzo
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AAA: Articolo tanto per (di Paolo Bontempo)

Pubblico un articolo in cui l’amico Paolo da il meglio di sé in quanto a forma e stile.

Questo è un articolo tanto per. Questo è un articolo universale, nel senso che non lo è. Il fatto è che ogni tanto ci convinciamo del fatto che tutto debba avere senso, anzi non è vero sto generalizzando ma se non si universalizza si muore causa un empirismo espresso con una sorta di rigore materialista nel tentativo di nascondere un idealismo soggettivo che non permetterebbe uno sviluppo normalizzato del programma, quindi della vita, cioè dell’oggetto.

Se avete cercato un senso a questa frase avendo fiducia nella mia retorica rimarrete delusi da questo “rimarrete delusi”. Volevo solo dimostrare di non volere dimostrare praticamente nulla. È abbastanza inutile indurre a dedurre senza una razionalizzazione Deodatiana delll’affermazione. Voi state pensando oooo quale sfoggio di cultura, chissà quale grande filosofo doveva essere questo Deodato, in realtà ririmarrete delusi dal fatto che Deodato è un regista.

Il cannibalismo non è un male se i soggetti in questione sono erbivori, il problema insorge al sorgere di una domanda che potrebbe far crollare ogni qualsivoglia incertezza in campo medico astronomico austroungarico. Il credere vero e rinomato il proprio lavoro estraendo l’orrido dall’orribile è un egoismo bello e buono se intrinseco fuori dal personaggio interpretato.

Se esponessimo una questione dalla fine non ne verremo più a capo, e gli dei dei Deidi, nota popolazione inventata, credo che si adirerebbero per l’aridità e la siccità delle loro scarne parole. Vuoi mettere una seduta spiritica con un alzata di ingegno per rendere più risibile il mondo deapud ossia depresso. Se al giuoco dell’oca giocassero due papere si creerebbe un paradosso di dimensioni paradossali se paragonati a un topino da biblioteca, poiché la Tiraboschi non è che attira foreste.

Avete perso tempo a leggere tutto questo, non c’è uno scopo, non c’è un intento, è un passatempo, è un passatempo. Ed è pure bello, ed è pure bello.

01 marzo
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Non c’è tempo

Mamma c’è Beppe Grillo che ci chiede di votare sul web che noi vogliamo ribaltare tutto. C’è il pierre del Setai che ci invita con amicizia ed accento milanese a passare una serata di sboccio. C’è Matteo Renzi che ci dice che è importante l’istruzione e poi bisogna digitalizzare l’Italia e tutto il resto. C’è la barra della pubblicità di facebook che ci propone di giocare e vincere. C’è il professore che ci dice che se continuiamo così non avremo neanche da mangiare, con i tempi che corrono. C’è il presidente che continua a ripeterci che sì, siamo i migliori. C’è l’amico filosofo sessantottino che sotto il cappello ci ripete che dobbiamo fregarcene di quello che ci dicono i vecchi. C’è nonna che torna dalla spesa. C’è l’intellettuale che ci urla: “non vendetevi al mercato, spogliatevi!”. Ci sono i negozi di lingerie intime che esultano di gioia. C’è un ragazzo morto al parco. C’è una cassiera, che poi è un laureato, che poi è un avvocato, che poi è precario,  che poi sono una miriade di studenti. C’è babbo che sa che sarebbe meglio andare a lavorare. Ci sono i videopoker che prima o poi vincerò. C’è un sacerdote che contestualizza l’etica laica. C’è una ragazza che ci fa una foto con Instagram. C’è un allenatore che ci urla che siamo delle checche. C’è un medico che ci spiega come si usa il preservativo, che l’unica è prevenire. C’è un giornalista che ci twitta che tocca a noi cambiare il mondo; ma la verità è che passeremo il pomeriggio sul divano, scomodi.

 

C’è un uomo, un uomo in fondo alla via, che passeggia tra le pozzanghere sotto il lampione e aspetta.

21 dicembre
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L’apocalisse dalla provincia

Oggi finisce il mondo, ne parla StudioAperto e ne parlano su Internet. Mi sveglio inquieta e mi ritrovo a casa mia, nel mio piccolo vuoto amministrativo-catastale. La situazione mattutina mi cade addosso in fragoroso silenzio. Una luce bianca da cielo nuvolo entra misteriosa dalla finestra ed io sono tanto pallida… quasi trasfigurata. Le cose intorno cominciano a farsi vedere, riflettono calme il bianco e mi stropicciano gli occhi. ‘Fanculo, io torno a letto. Minuti sette e la sveglia suona di nuovo (o non ancora?). Adesso è il buio, sia intorno a me che fuori dalla finestra, si distinguono soltanto il LED del portatile e il lampione della strada qui sotto; rarissimamente passa una macchina, gira i fari sull’angolo della strada e svanisce.  Mi tiro su sospirando e, gobba, passo le mie dita sugli occhi. Il freddo extra-coperte è sempre uno shock, dovrei essermi abituata ormai! Scendo dal letto e brancolo nella gelida oscurità della stanzetta, il tempo di orientarmi, accendo la luce e mi vesto.

Fuori dal portone è più buio di quanto ricordassi, accenno un sorrisino sarcastico, metto le mani in tasca  e sussurro che, wow, è la fine del mondo. Mi avvio verso il lampione – quindi la fermata dell’autobus – e mi ricordo che sette minuti prima di stamattina c’era la luce. Primo fatto strano. I fari di un’auto si palesano in lontananza e si avvicinano sonnolenti – il pullman è in ritardo – la macchina arriva e d’improvviso mi accelera contro, mi levo con due passi larghi e quella impatta sul marciapiede; un tizio esce, fissa il lampione, torna in auto , retromarcia e se ne va di fretta nel buio. Secondo fatto strano, che mi lascia nella fredda solitudine della buia mattina di periferia. Un suono greve, continuo e lontanissimo percorre il silenzio, finalmente l’autobus.

Come sempre, sono l’unica sul pullman delle sette: saluto  l’autista e siedo in fondo. Inizia così il mio ultimo giorno… Mi guardo attorno con sguardo cinico e lecita sonnolenza. Inaspettatamente (forse i due fatti strani di prima…) un’assurda inquietudine mi attraversa i pensieri. Un’irrazionale timore si palesa. Una preoccupazione tutta nuova.  È come se mi aspettassi qualcosa da questa stronzata di giornata, come se attendessi davvero la fine. Il tempo si esaurisce fuori dal finestrino, lo spazio scorre e si accartoccia, il senso lineare della storia si conclude davanti a me, si toglie il velo delle incertezze terrene e si avverte una sofferenza finale.  No. È una vecchia che sale sull’autobus.

Ore 14:47 e non è successo ancora niente. In centro c’è molta più gente, ma io  sono ancora sola. E inquieta. Appoggiata al muro, alzo gli occhi oltre i palazzi: il cielo è nuvolo e di un bianco brillante… quasi trasfigurato. Le finestre degli edifici riflettono la luce e mi stropicciano gli occhi. Déjà vu. Terzo fatto strano e non è ancora successo niente. Io aspetto sempre l’autobus – o forse no? – Io aspetto, sempre. Suvvia, smettiamola di tirarci addosso queste minchiate irrazionali… – Estraggo un fazzoletto e mi soffio il naso – E se fosse tutto già successo? Magari è già tutto finito, almeno per me… Magari quell’uomo in auto mi ha investita ‘stamattina! Forse questa è una coscienza ultraterrena, solo mia o universale. Magari siamo già tutti morti!  Stolti che camminate verso i mercatini! Ragazzine che entrate da Kiko e uscite col sacchettino in più: non sapete che siete tutti morti?  Ma che cosa sto dicendo… Mi farà diventare matta questa confusione/stanchezza pre vacanze Natalizie. Matta. E intanto non succede nulla.

Sai, lettore, forse è proprio  qui il problema. Forse è qui che il tempo si esaurisce e il senso svanisce. Forse è questo vuoto evanescente la fine. Forse è proprio questa l’apocalisse: che non succeda nulla.

 

 

« Quando l’agnello aprì il settimo sigillo nel cielo si fece un silenzio di circa mezz’ora e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio e furono loro date sette trombe » (Apocalisse 8,I)

18 novembre
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Fenomenologia delle feste da liceali

Primo approccio con la casa deserta dei parenti dei vicini di chi dà la festa: positivi. È abbastanza piccola, ma lascia possibilità di scoperta di spazi ulteriori, oltre alla sala principale dove sono posizionati una piccola consolle e due casse di potenza medio-alta.  Inizia la playlist: dalle zarrate di serie Z si passa ad una House leggermente più passabile, poi ancora le tarrate più in voga al momento, tipo MTV remixata. In realtà anche l’ambiente è tipo MTV remixato. Lucine improvvisate e lampadari a bassa intensità. La musica non è ancora troppo alta, si può far conoscenza dei personaggi.

La prima, inevitabile, onnipresente ed inesorabile è la ragazza bisognosa di attenzioni. Ce n’è sempre una, che tu sia ad una festa come questa o che tu sia a giocare a tombola in oratorio. Finge di essere ubriaca dopo mezza birra, ti comunica la finta ansia più idiota che le passa per la testa e tu (dannazione) te la ricorderai per questa finta ansia, non per il suo nome o per come è vestita, ma solo per come finge di atteggiarsi. Il massimo dialogo che avrai con lei sarà del tipo “Ciao, io sono strana per questo… uoo”, “Sì anch’io sono strano, ma per quest’altro… uoo”. Insomma, un’accozzaglia di non-senso.

La seconda, altrettanto onnipresente, è la ragazza che è stata invitata, ma si è portata dietro la ragazza bisognosa d’attenzioni sopracitata e adesso non se ne stacca più. Non è assolutamente possibile ricordarsi nulla di lei, se non che lanciava occhiate ridicole al tuo amico. Per il resto totale indifferenza.

Il terzo, il diggèi con l’accento milanese che tiene sott’occhio la situa, uè. Cioè, lui mica è qui per divertirsi o perché è stato invitato, lui è superiore, cioè, senza di lui sareste tutti a casa a guardare una fiction. Magari su MTV.

Il quarto, il socio del diggèi. Cioè, lui è il più faigo dei faighi, per questo ha il diritto di stare dietro la consolle e andare in mezzo alla sala solo quando gli scappa, per il resto non ha utilità alcuna, ma viene ugualmente lodato quando porta l’alcool. Perché siamo mattissimi noi.

Il quinto, io. Cioè uno che non è abituale di questo tipo di feste, ma conosce gran parte di quelli che ci sono. Quindi si bipolarizza tra allegra e disinteressata pirlaggine sui pezzi più tamarri che passano e tacita osservazione da seduto in parte, facendosi trasportare più dal sonno che dal sàund del diggèi, o dall’alcool mattissimo.

Il/la sesto/sesta, quello/quella che non c’entra proprio nulla. Che ci fa lui qui? Cioè, boh. Uhm. Starà seduto.

Il/la settimo/settima, invitato standard. Lui/lei è qui e chiacchiera urlando, conosce la ragazza bisognosa d’attenzione, dà più attenzione alla sua amica indifferenza, magari fa una capatina in bagno, poi ballicchia alla meno peggio agitando le gambe, se fuma esce a caso quando se la sente o quando ci sono i suoi frènds fuori. Insomma, sì, si diverte, ye.

Uff. È il momento di mettersi seduti e stare a guardare, domani sarà tutto diverso, m’immagino questo posto sgombero, illuminato e senza nessuno. Poi piano piano mi accorgo di avere sempre più sonno… Comincio a studiarmi gli invitati, mi chiedo perché. Ne scriverò sul blog dopo, boh, non ce n’è bisogno… Che ore sono?

Buonanotte…

26 settembre
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Davide

Davide sta in piedi, tende una gamba un po’ più in là e tiene le mani in tasca, come chi aspetta. Davide si guarda attorno con aria di sufficienza per poi tornare con lo sguardo basso e assorto. È in terrazza, ma da l’idea di non essere lì. Da l’idea di avere un posto migliore in cui andare, come se fosse lì in un continuo momento di passaggio, in una continua tensione ad un pensiero più in là. Più in là. Gli occhiali tondi dalla montatura sottile cedono un secondo alla forza di gravità e si fanno spazio sul naso, la mano è quindi chiamata al tempo presente per tirarli su. Davide non sembra usare l’osservazione diretta, ma si capisce che osserva, anche se guarda un punto fisso. Rimette la mano in tasca, per poi toglierla con una confezione di liquirizia. Ne prende una, ispira profondamente per avvertirne l’odore e se la caccia in bocca. Muove impercettibilmente le guance per succhiarla, ma non tutta subito, non adesso. Poi. Rimette la confezione in tasca con un leggerissimo rumore. Io non posso capire a cosa stia pensando. Si gira, si rigira, sente qualcuno arrivare, fa finta di niente. Niente.
Davide da l’idea di avere un posto migliore in cui andare, ma nemmeno lui è certo che esista. Forse non c’è proprio niente.

20 giugno
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Periferia

Il vecchio raccoglie le feci del cane che muto s’avvia verso le case popolari, le quali sono tre palazzoni alti sparsi a caso nel vuoto, nel nulla. L’odore della pioggia umida permane nell’aria e nuvole scure di morte conquistano l’orizzonte. La giovane vedova s’appoggia al balcone e lenta prova un nuovo dolore. Tre ragazzini figli di nessuno in bicicletta sudati: il mistero avvolge le loro mete e la loro provenienza. I campi sporchi di merda condominiale e i condomini sporchi di fango solidificato che si fa poltiglia e terra sporca col ciclo del tempo. Il tempo non esiste. Tre operai magri come olmi attraversano la rotatoria e ignorano la bimba scura d’occhi e di volto che chiede la moneta. Ha un vestito sporco di sabbia – quale sabbia? Più in là la superstrada. Migliaia e migliaia di macchine segnano l’asfalto, limano i dettagli, le merde degli uccelli, i cestini stravuoti. In silenzio un aereo se ne va. Un altro, più in alto. La brezza passa nei cornicioni devastati della colossale fabbrica dismessa. È deceduta dieci anni fa. Un manifesto del circo di Moira Orfei di dieci anni fa guarda i propri colori fluorescenti perdersi nel fiume di particelle impercettibili che solcano il nulla. Ogni tanto passa un muratore che lavora in nero nel cantiere di ******. Una A cerchiata e un sole delle alpi vicini sul muro: loro non hanno la forza di cancellarsi a vicenda. I loro rispettivi autori saranno lontani nel loro nulla quotidiano gonfiato di ipocrisia. Il sole scotta da dietro le nuvole gonfie. Un ubriaco crolla non so dove. I condomini crollano a pezzi. Le crepe si dilatano con ogni nuova scossa. Un generatore degli anni dieci sta in mezzo al canale artificiale che non c’è più, solo un deserto di sassi. Una magliettina dei cinesi da donna in terra da chissà quando, le paillettes si disintegrano lente lente. Lattine, lattine, bottiglie, lattine. Forse il sole sta tramontando e forse questa è la sera. In lontananza si accendono le luci della centrale elettrica, quasi irreali. La strada è umida e bagnata a tratti: ha piovuto? Il marciapiedi s’interrompe davanti alla recinzione dei vecchio magazzini abbandonati. Un barbone saluta da dentro, sepolto dalle erbacce. Senti i sogni morti cadere ininterrotti nel fischio continuo che viene da là dentro: nessuno ci entra dagli anni novanta. Da dietro le tendine di nylon rosa del terzo piano delle case popolari esce a stento una melodia pop commerciale d’interferenza. Un ragazzo col cappuccio. Un albero bruciato. Un camper depredato. Il discount pieno di vuoto.

E io chi sono?

Lontano, lontano, qualcuno ti aspetta.

08 giugno
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Nulla da autobus.

11B Loreto. Ci sediamo in fondo. Silenzio. “L’uomo è una creatura infima, ridicola, ladra, peccatrice. Ma ha qualcosa di incredibile”. Ti guardo. Hai uno sguardo all’improvviso diverso. Si vede che rifletti. Si vede tutta la tua razionalità è lì, davanti a me. Ti rispondo qualcosa di meno rilevante. Continui: “La fragilità dell’essere umano è devastante. Chi pensa, chi riflette, non può fare a meno di intristirsi. Solo l’uomo semplice e vuoto di pensiero è felice, ma è una felicità apparente. Vana.”.
“La gioia è come un fiore che cresce senza sapere che verrà ucciso dall’inverno”

Abbiamo qualcosa dentro che urla al nulla. Abbiamo qualcosa dentro che vince il nulla che ci circonda.

Sono, d’improvviso, felice.

Grazie.

05 giugno
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“Mi scusi, non ho tempo”. La signora coi capelli ossigenati si avvia di fretta verso l’uscita della metro. Poche speranze, ormai. Sarà tipo la settima che ferma. Dai, ancora una. “Guardi, non è il caso, cioè adesso… è una giornata già abbastanza di merda…” la signorina universitaria continua a parlare, ma pian piano che se ne va la sua arrabbiatura sfuma nella folla. Parla solo per sé stessa, a quanto pare, senza un reale interlocutore. “Mi piacerebbe esserle d’aiuto, ma guardi, io non sono qualificato, si rivolga a qualcuno di più professionale” e anche il pelato se ne va; le luci al neon si riflettono parallele sul suo cranio. “No, guardi – scuote la testa e continua a parlare al telefono – scusa un tizio messo male mi ha fermato in metro, dicevi?”

In terra. Il tizio messo male è sdraiato in terra e guarda il soffitto sporco e si accieca di luci artificiali. Sente il gelo del pavimento sporco di morte.  La gente/folla gli passa attorno. Una mano lungo il fianco, l’altra verso la testa. Le gambe semiaperte. Una ragazza si china appena un po’: “Oddio. Ma le serve una mano?” “Niente. Non è niente.”

“…”

“Mi scusi, non ho tempo”