Un Luogo Comune

per non dare nulla per scontato

Archive for the 'Racconti' Category

28 agosto
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Figli di madri cattoliche

29 Luglio, Notte

come marinai siamo
usciti dalla tempesta
e le ruote si sono asciugate
velocissimissime girando
sull’asfalto
davide non lo sento da anni eppure esiste ancora

davide va in olanda e la lombardia

la lascia
cosa lascia davide?

 

 

il mcdonalds di segrate rapinato dal tramonto e poi dal temporale e i fulmini paralleli alla strada che squassano il nulla intorno, è questo che lasciamo quando andiamo oppure siamo noi nelle nostre gabbie di faraday a inventare la pianura padana dietro i finestrini bagnati solo per avere qualcosa da cui scappare, in cui restare, da conquistare?

 

1 Agosto, Sera

Mattia fa la doccia mentre

un piccolo cane abbaia nel nulla,

gli insetti prendono piano possesso

di questo terrazzo

e io non ho mai chiesto

che questa precisa bellezza

davanti a me stesse

come se, da sempre,

insistente esistesse.

e non so davvero cosa

di me

di me succeda

né fino a dove guardare

mentre si carica il cellulare,

fino a dove capita,

capita ancora,

con una profondità diversa,

con il pentimento del tempo

passato

a desiderare meno di questo.

 

Bruciano tutto qui intorno,

passano le macchine e poi torna

un gran silenzio.

 

Non chiudo,

aspetto.

E non ho niente e tutto, fuori,

è dentro.

 

2 Agosto, Notte: amaro

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e me ne vado da loro, che a stare lì sto costretto, piuttosto salgo le scalette e resto spiaggiato sul letto, tra i sassi. cammino ormai in mezzo a tutto, e non c’è domanda da porre a tavola senza che riguardi il cosmo, anche alla lontana, anche chissà come. hanno bevuto i ragazzi e anche io, eppure tengo bene, tengo tutto. quando lavo i denti guardo le stelle, quando salgo le scale le salgo chiedendomi dunque quale sia il mio cervino, perché il resto c’è ma passa e lascia silenzio nel senso che penso cosa c’entro, chi chiamo quando ho tempo, chi dimentico e cosa amo. cosa amo al punto da non pensare alla fatica e solo lasciarmi trascinare nella profondità di un origine che più sembra lontano, più davvero è vicino e tu e tu hai quegli occhi che maledico perché hanno dentro lo spazio più vasto del golfo, la postura fottuta e gli sguardi incazzati di noialtri figli di madri cattoliche con i cuori grandi e i colori della campagna tutta bruciata, tanto per cambiare credo che tu possa tornare.

eppure ho bisogno di tutt’altro e non ho paura di dirmelo piano, poco prima di dormire.

 

3 Agosto, Notte: pallavolo

da ieri sera al pranzo di oggi il direttore ha mosso i polsi sempre più velocemente, tutto il suo corpo stava in quei polsi. poi le mani, le mani e le braccia e l’orchestra che suonava alle spiagge di sassi di sabbia, ai panini e al melone, che bisognerebbe parlare per ore di quello che ci è successo. e poi giocare a pallavolo e andare in mare a litigare perché a questo punto guardami fino in fondo e non pretendere che tutto sia perfetto. è perfetto così, però, e nemmeno c’è bisogno di dirselo. bastano i fianchi della cameriera bionda e i nostri schiamazzi e ancora amari come questi mesi in cui avevo paura di desiderare.

porta a quella madonna il conto di quello che mi ha messo nel cuore, dille che ancora parlo troppo e quando dovrei stare zitto non mi riesco a spiegare e quando dovrei parlare mi giro dall’altra parte e fumo a scrocco. la gola che gratta, la mia voce nelle cuffie, alessandro non risponde.
ci sono dei fari che sparano la luce contro le stelle, sarà il mare o qualche discoteca. poi piomba una stella cadente su di me e i ragazzi ridono sotto e non faccio a tempo a chiedermi che cosa desidero. perché sei tu, e la mia voce nelle cuffie per tutti, e tutto per sempre e tutto adesso. e che la stella mi arrivi addosso.
perché tu arrivi anche se sono stanco e va bene, pensavo ad altro, sei bello che ti fai accarezzare e mi rialzi lo sguardo.

 

4 Agosto, Notte: per terra

ci sono dei letti per terra che bisogna superare con certi passi lunghi e quatti, ai lati dei materassi per non svegliarli. c’è la macchina di giovanni che non parte mai senza un’altra macchina che ne carichi la batteria. ci sei tu che per amarti prima devo essere abbracciato da tutti, qui, e guardare il filo del mare. poi c’è la luce che si proietta sul muro con le sagome degli alberi quando passano le macchine sullo stradone nel niente, come una lanterna che gira le stelline sul muro per fare addormentare noi bambini pieni di limoncello e drum e altre cose legali.

la mia voce si addolcisce se canto cose vere, credevo non piacesse a nessuno e invece… io e bernardo abbiamo buttato un sacco di immondizia al lato della strada, nella sterpaglia buia. erano tutti piccoli animali, resti di calamari. sebastiano si lava i denti mentre cago e pede viaggia verso la polonia. non ho ancora chiamato bonti ma le mie canzoni non smettono di parlare di lui. e di quel sotto che c’è in tutto. nel mio labbro rotto e nel sangue sempre seguo quel profumo di boh, che l’identità ce l’hanno tolta in promo con l’anno di nascita.
ma tu fammi vedere la tua faccia, ancora in due amici che dormono qui, ancora nel di più di cui sento il profumo in mezzo alle colline, nel mare. io che canto e ancora il canto di cicale.

 

5 Agosto, Notte: debole

se mi sveglio che ho sognato la tipa, ancora, sbuffo un po’ perché mamma mia non cresci mai! tante cose belle e importanti che dici e poi guardati lì come brami ancora semplicemente quello che non sei stato capace di compiere anni fa perché debole. e ti metti alla prova e cadi, perché debole. scrivi alle altre e non a te, non all’anima tua che hai servito per quattro mesi di dolore. ma non voglio essere forte non voglio, che se no sarebbe scontato amarti stronzetta. così invece mi dice verifica, guarda proprio per te, torna a scannare ogni piccolo desiderio del tuo cuore, che sia sposare una o solo volerle sbottonare la camicetta, tu guarda lì, guardaci e vedrai che non è roba tua che non sono moti tuoi, che appartieni e sei più di tutto ciò che brami, sei filo diretto con il disco del sole in fondo alla baia, con la ferrovia nella sterpaglia e il punto in cui finiscono i binari chissà di fronte a che mare solcato da chissà quali migranti economici.

e così 21 angels scritto sulle mutande di bernardo, 21 angels che non sei solo e nuoti nudo nel mare largo senza bambini terroni, senza dover fare nient’altro che cantare, con mattia lì vicino alla boa, le mosche, amici sconosciuti intorno a un tavolo pieno di birra e pasta e ricotta per te. ti amerò solo se sbottonandoti la camicetta sfioreranno le mie dita tutto questo: persino le spazzature dietro le spiagge, gli scogli che pungono e le cose che grido, persino quando non respiro, persino te.

24 giugno
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Il Vangelo secondo Smatteo

Se ritorna uno smatto di Paolo cosa vuol dire? Che si torna indietro? Che si va avanti? Che è Giugno e non c’è un cazzo da fare? Forse?

In realtà ho una specie di carica super mario smash smosh boh. Cioè nel senso appunto infatti su un blocco dello scrittore le annotazioni per il prossimo film di ezio greggio tutto minuscolo. Risollevare la commedia all’italiana e buttarsi nella serie Z che neanche in lega pro che neanche in serie c che neanche stare giù. Allora tu giocavi a pallavolo e io venivo a guardare le tue partite, è ok? Creiamo questi ricordi così i nostri figli saranno contenti. Io lo spero che avremo dei figli, ma quanti ne vuoi, uno due tre o quattro e poi fare la fame ogni santo giorno che piove nevica e tutte le cose invisibili e di merda. Buttato nel mondo antico, rialzato dalla cenere del battesimo, venerdì santo prima di sera suona il campanello d’allarme come un gong e dai il via alla nuova sfida fra stati uniti e stati sparsi. Ma la Russia è ancora una potenza mondiale? Ma il giappone perché ogni tanto salta in aria però non è come trenitalia che per farti male o inciampare o sbattere contro le porte girevoli devi aspettare anni e amare i ritardi. meglio l’argentina unita o il brasile che vince i mondiali di Curling e nuovo sport nazionale e nuovo mito globale e la djmba e il dance floor nuovo di zecca con donne da Rio. Napule, salta di tempo in tempo questo nuovo mondo terzo millennio new age new world no profit no tav yesman yes portiamo avanti le coalizioni di destra sinistra alto basso ticino dove nuotiamo coi braccioli di braccio di ferro gonfiati a spinaci e voglia di vivere sul lato giusto dell’arno, sulla sponda sporca del giorno. Perché si sa, ogni minuto che passa fanno secondi preziosi, ogni anno che se ne va porta con sé nuovi doni a Babbo Natale a un Babbo qualunque ma no, alla povera Madonna neanche un rancio di Sushi, neanche farla rimanere in cinta col curry o il primo baracchino messicano destinato a cani da macello, tipo dietro l’angolo vendono una costata buonissima e già dal nome sai il prezzo. L’inflazione torna quando meno te lo aspetti, come un giornale a forma di aeroplano che si schianta contro le gemelle Kessler e interrompe i balli di una vita, le speranze di una signora per bene che usa saponette usa e getta e sgancia scoregge non appena si indispettisce. Però noi tutte queste cose non le possiamo capire a fondo, noi tutte queste cose dobbiamo guardarle da un bicchiere pieno di vino, che sia Chianti o schiantato contro il parapetto di uno che fa takewondoo ma non guardagna un cazzo e la sera porta pizza kebap stronzate lego takeaway away da ciò che vuoi beby qui non scherziamo col fuocoammare ma solo amare un unico dio e se capita anche zeus afrodite atena e poseidona che si posa a fondocampo e noi chiudendo il diaframma potremmo addirittura respirare aria buona.

 

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13 marzo
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Schifo

Forse non ho mai commesso errore più grave di quella volta che sono salito furioso con la bicicletta e mi sono lasciato andare a sfiatare sulla panchina. E nell’affanno ho respirato e sorridendo ho detto “in fondo non ho nessun problema, sono in pace con Dio e col mondo”. Fortunato. E poi lì fermo, steso addosso alla pianura, zeppo della mia salita inutile, io, io che sorrido nella mia pace indotta e mormoro un ringraziamento che non è.

Solo adesso, poco più su, mi accorgo di aver sbagliato davvero quel giorno. Del mondo non mi curavo e Dio lo tenevo come al guinzaglio. Perché sono arrivato a fare finta anche nella più candida solitudine. Perché non si ringrazia mai davvero se non quando si chiede, si chiede ancora. Ancora più sassi, ancora più flutti, ancora più.

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29 aprile
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Serata Capiente

di Paolo Bontempo

Oddio è stare male. È stare ad aspettare senza sapere, senza capire che le direzioni del vento cambiano di tanto in tanto, che i colori sono diversi dal tuo studio, che un restauro può distruggere, che il semaforo può sbagliare, che si può morire, cazzo.

Potrei cominciare a parlare della diegesi dell’essenza intrinseca, del non capire che arrampicarsi è scivoloso, che ti cruccia questo vivere apparentemente vuoto, questo sentire che non c’è niente, perché non cerchi niente, perché non vedi niente.

Buttati dal piano più alto del tuo palazzo, sprofonda nell’ancestrale spazio che ti apre il Correggio, Cristo Santo, non farti risucchiare dal non vuol dire.
Cosparsi di sentimenti,

siamo meno romantici,

di quanto

vorremmo essere.

 

16 dicembre
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Niente canzoni d’amore per uno scrittore adolescente

Ho un amichetto che torna a casa e scrive anche se è tardi. Quindi pubblico quello che scrive, ogni tanto.

di Paolo Bontempo

Questa non è la solita prosa impostata del sabato sera, è solo una cosa fine a se stessa, fine allo stress, inutile come non mai, ma mai eccessivamente bella, protesa verso. Ho 15 anni adesso, e ho bisogno di spazi larghi, di vedute strette, di inquadrature nuove, più interessanti del tuo sguardo, più lontane dei tuoi occhi. Ho 16 anni adesso, ma non me ne capacito, solo sono un po’ più stronzo, disilluso e utopicamente spinto a capire, la bellezza della merda, il movimento delle tue pupille. Non ho niente adesso, o almeno così sembrerebbe da quanto non scrivo. Penso sempre a quanto innamorarsi sia bello. Tu, ad esempio, “Ti amo”, non dirmi che non mi ami, ho visto come mi guardi quando mi volti le spalle, come mi osservi quando dormi, come parli quando canti, come sono scemo ancora adesso. Eppure io credevo di volerti bene, poi mi sono chiesto “Ti amo?” e allora ho avuto paura di spaventarmi, timore di entrare in un vortice caldo di sensazioni controproducenti, di asfissie giovanili, di grida selvagge, di morti sicure. Amare è decidere in realtà, se non scegli rimani immobile a crucciarti per non esserti deciso a mandare affanculo qualcuno, di non essere riuscito almeno a convincerti del contrario di non sai bene che cosa.

Non ho niente neanche adesso, lo capisco dai suoi occhi. Lei mi amava mentre ti amavo, e ora che la amo non mi ama più, e poi dicono che la morte sia una brutta cosa se se ne abusa, se si smette di vivere per un attimo veloce, se cominci a solidificarti e a scioglierti di tutte le preoccupazioni. Ora devo cercare chi mi ama mentre la amo, me se non la amo come posso uscirne? Come posso pretendere di trovarti? Esci fuori, urla, grida, “è Dio che mi ha mandata”, allora ci sposeremo, ci stancheremo subito e poi avremo dei figli, dei nipoti, degli impegni, delle rotture di coglioni, dei film da vedere insieme. Scoprirò un giorno un posto in cui chiamarmi Domenico, in cui navigare sul male, in cui tuffarmi senza fretta.

Non ho niente neppure adesso che non so quanti anni ho. Dovrei dire che non ho niente neppure adesso, ma non me la sento. Sarà che ho una melodia che mi continua a girare in testa. Sarà che ho mal di testa da 17 anni. Sarà che dico troppe parolacce. Dovrei continuare a dire che non ho niente neppure adesso, ma non me la sento. L’istinto mi sta conducendo, e potrei aver detto cose a cui non credo, prima, e forse lo farò anche dopo. Dovrei continuare a dire che non ho niente neppure adesso. Però guardo fuori dalla finestra, per un attimo, e mi accorgo che la tapparella e abbassata, che la luce è spenta, che non è possibile.

28 ottobre
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Amor, amor, amor

“Non hai nessuna scusa”. Disse la ragazza dai capelli belli e dal trucco pesante al ragazzo senza pretese. Poi le uscii direttamente dal midollo spinale un “bastardo”. Vocativo pronunciato con una particolare attinenza all’espressione, con una prurigine ed una sincerità che solo chi vorrebbe ammazzare può permettersi. Stringeva i pugni e aveva tutti i muscoli magri in tensione. Non era una di quelle che si emozionano, però credeva nell’amore. Cioè, così diceva quando esprimeva tutta la serietà di sentimenti che aveva in corpo. Quando rispondeva all’unica pallida domanda con una minima pretesa di importanza che si pongono le ragazzine su ask.fm, “credi nell’amore?”,  osava rispondere di sì. Non è che avesse esperienze diverse dal limone nei locali del centro o di Orio al Serio, nulla di più del ragazzo “serio” ogni tanto: ogni suo sentimento veniva riassunto con sopravvalutata pertinenza dalle frasi sulle borse di subdued. Però, di fronte a quella domanda che l’anonimo iPhone le notificava con inattaccabile puntualità, sentiva muoversi come una corrispondenza tra il concetto di amore e le esigenze più profonde del proprio cuore.
Lui da parte sua ci aveva passato davvero tanto tempo con lei. Per questo era sconvolta dalla verità che all’improvviso aveva sentito uscire dalla sua bocca. La turbava il vuoto tra l’amara concretezza delle parole di non-amore che lui le aveva detto poco fa ed il ricordo estivo di tanti fatti che, quando li aveva vissuti, continuavano a confermare nella sua mente l’amore assoluto che lui le prometteva. Fatto sta che lui ora si divertiva a fare il ragazzo che si “gode” la giovinezza (dove il termine “godere” è inteso in senso essenzialmente sessuale) e si crogiolava nella nuova figura di stronzo spezza cuori che si era trovato a disegnarsi addosso. E dire che erano anche andati in vacanza insieme.
Tutte queste immagini di presunta pienezza sentimentale passata le bombardavano il cervello. Si mise a piangere. Non piangeva per debolezza, né perché era ancora innamorata del bel bastardo, né perché l’aveva trattata male: erano tutte cose con cui sapeva fare i conti. Piangeva essenzialmente perché questa contraddizione tra passati densi di gesti fino allora considerati amorevoli ed un presente fatto di nuda realizzazione del falso la mandava in crisi. Si accorse che dell’amore non sapeva nulla e che se nulla sapeva e nulla provava, l’amore nulla era. E se l’amore era nulla il suo cuore anelava ad altrettanto nulla. Un gioco di nulla che si alternavano nei suoi occhi e le cadevano sulle guance.

Il primo inverno congelava il cruscotto della macchinina nuova nuova che i suoi diciott’anni ed il benessere finanziario dei genitori le avevano permesso. La condensa rifletteva i lampioni del centro e lei era ormai sicura che il mondo fosse destinato a finire con qualche gossip sulla loro rottura e la certezza che aveva dato tutta sé stessa ad un essere di cui aveva  soltanto ribrezzo. Pensò che l’aveva tanto amato.
Poi, come un brivido, le salì un sospetto lungo la schiena. Si volse come se qualcuno l’avesse toccata sulla spalla; ma di là c’era solo la fontana di piazza Pontida che continuava a sputare acqua nel silenzio della domenica sera. Allora capii: lui la voleva solo per un rapporto fisico continuativo, ma anche lei non aveva fatto altro che dargli organi sudati, la situazione sentimentale di Facebook e spietate frasi da serie tv. Capii che se l’amore c’era, era una cosa completamente diversa: fino ad allora non aveva fatto altro che mentire e rotolarsi soddisfatta nelle menzogne, come una scrofa nel fango. La vacanza di quell’estate era solo una menzogna a pagamento. La sua vita da un po’ di tempo a quella parte era una menzogna ben raccontata. E in fondo, fino ad allora, aveva sempre finto di non saperlo.
Travolta da questi pensieri, con il cellulare che vibrava nella tasca della giacca in macchina, seduta sull’asfalto ed appoggiata ad un pneumatico posteriore, non si accorse che la notte le ghiacciava le mani e che il freddo pian piano le devastava i polmoni. Forse quella notte fece troppo freddo, forse aveva pianto troppo, forse era troppo sola. Lanciando l’ultimo sguardo alla fontana realizzò che ormai era troppo tardi per provare ad amare e che aveva davvero, ma davvero sonno. Chiuse gli occhi.

A dire il vero

09 ottobre
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Il loro viaggio porta un po’ più lontano

Avete notato che le strade cominciano a fare le frettolose? Che gli alberi piagnucolano, sempreverdi e sempremorti? Io è un po’ che colleziono occhiate alle foglie arancioni, faccio venire il mal di testa ai lampioni, che s’accendono tutti imbarazzati. Mi confondo le emozioni, mi specchio nella carta stagnola, non mi ricordo quella parte lì della traduzione. Non ti devi giustificare.
L’unica alternativa alla finestra aperta sulla nebbia è camminare. Camminare assieme. Che bello, pensaci. Non siamo soli a prendere a pugni l’autunno. Miliardi di chilometri in autobus infreddoliti. Miliardi di volte mi hai chiamato per nome. Solo ora capisco come mi chiamo.

Lunga vita alle pozzanghere,
Bergamo capitale europea della provincia.
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20 agosto
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Osservare esausto

È facile vivere così.

Io, solo in mezzo alla gente, chiuso nel mio salviettone, con la croce avvolta intorno al  cuore, ascolto il profumo della  vostra cannabis e mi lascio deridere da tutta la mia immaginazione. Mi lascio deridere da voi, società delle 16:30, lasciata ad asciugare nelle fogne di una  città che ben diversa sarebbe, se solo non fossi  solo.
Non siete contenti della spremuta di confusione che mi avete estratto dalle punte dei capelli? Applaudite alla banda delle cause perse. Io del mare non ne posso fare a meno, ma la spiaggia la dovrei proprio incendiare, prima che sia troppo tardi, prima che cambi la luce,  prima che m’innamori di  voi.

Ho perso  De Gasperi in mezzo alla piazza; vorrà dire che mi metterò a succhiare tutte le caramelle del paese. E voi non potrete impedirmelo coi vostri riff ripetuti e la vostra  affettività marziale. Ma quale gelateria? Ma quale introspezione?!  È solamente esistere pallido sui muri, malato di  morte. È la sacrosanta e violenta libertà. È l’iconoclastica devastazione del  beach-club! Otranto sommersa dalle onde! Flutti eravate e flutti tornerete! E non c’è Protezione Civile che regga, c’è solo la mia preghiera che vi rovescia il centro storico. E Dio sorride della mia coscienza devastante, il Dio degli occhiali da sole, del proibizionismo e di tutti i santi. Dio sorride e nulla vi accade.

A voi non vi accade mai nulla, siete ancora lì, nudi in mezzo al nulla, terra inesistente, scorci immanenti; sottomarche di occhiali, smartphone samsung, esibizionismo celato e orecchini: è ancora tutto lì, fermo dove non l’avevo (mai) lasciato. Non mi siete (mai) piaciuti, ma ho fame di voi.

Ho deciso: morirò di pizza, morirò di spiaggia, di assalti alle mura e di lecca-lecca. Ma che flusso di coscienza?! È fighettismo infantile. È imperialismo economico della domenica. È che siamo malati cronici.

Solo il tramonto mi salva.

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02 luglio
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Da dove vieni?

E così, dopo averlo osservato fin dall’orizzonte, Chiara salì sull’autobus. Fatti tre passi intimoriti tra la folla, si sedette nel mezzo in un posto singolo, gli occhi fissi oltre il finestrino, quasi preoccupati, intenti a seguire il dispiegarsi delle cose sui marciapiedi del centro.

“Scusi, sa quando devo scendere per via Togliatti?”. Un fattore esterno all’improvviso aveva interrotto la sua contemplazione del panorama urbano in movimento, un fattore esterno dagli occhi chiari e dai capelli farfugliati, con la bocca leggermente aperta ed uno sguardo stupito, un bel fattore esterno insomma. “Oh, certo, è la mia fermata!”, annuì sorridente Chiara lasciando da parte il fastidio causato da qualsivoglia conversazione con un interlocutore sconosciuto. “Sa cosa?” – e il sorriso divenne risata – “Io credo proprio di essermi già sognata questa situazione. In ogni dettaglio”. Lo sconosciuto fissò lo sguardo per un istante, per poi partecipare alla risata. “Comunque alla prossima siamo arrivati”. “Grazie infinite”. Chiara appoggiò la mano allo schienale del sedile davanti e, alzatasi, si ritrovò di fronte alle porte dell’autobus. Lo sconosciuto era dietro di lei, vicinissimo.

Una volta scesi e percorsi i primi venti metri, Chiara si accorse che l’uomo di via Togliatti le stava ancora dietro. Con fare affannato accelerò il passo verso casa, lanciando occhiate dietro le spalle, nella vana speranza di vederlo imboccare una trasversale. Nessun altro nel raggio di trecento metri: il respiro di Chiara si fece più rapido, sempre più rapido, finché non vide finalmente casa. Era una situazione ansiogena, che spaventava e confondeva Chiara: era veramente malintenzionato oppure era lei a pensare sempre male?

“Scusi!”. Chiara si fermò impalata, con gli occhi spalancati, inquieti “Io non sono di qui, sa, avrei bisogno di una mano…” La ragazza corse per qualche metro, anelante alla porta di casa “…Non mi lascerà qui da solo!”. Come sentì questa frase, Chiara si voltò misericordiosa verso lo sconosciuto. La situazione si era spostata sul polo opposto: era lui in difficoltà, non lei. Un po’ per gentilezza, un po’ per istinto Chiara gli andò incontro: “Dove deve andare di preciso?” “Le sembrerà strano, ma non lo so”.

 

Chiara aveva cominciato ad apprezzare il parco solo dopo gli incontri con l’uomo di via Togliatti. Più che un parco, era un’aiuola fiorita in mezzo ad un’area condominiale, con qualche ragazzino d’atmosfera e delle scritte sui muri. Era un po’ che si vedevano lì in mezzo, per chiacchierare e passeggiare avanti e indietro, circondati dal profumo di gelsomino.
“Verrà a piovere…”, “Avevo notato. Mi piace quando piove a primavera, dopo un po’ ci si stufa del sole” “Hai ragione, nulla è più piacevole di riscoprire le cose che ti circondano”. Chiara sorrise con tutta sé stessa. Non sapeva nulla di quell’uomo. Non conosceva il suo nome, la sua famiglia, dove abitasse, perché era sempre vestito allo stesso modo e, a pensarci bene, non sapeva ancora dove dovesse andare di preciso. Lo vedeva senza orari, senza appuntamenti, senza aspettative, ma aspettava di vederlo per tutto il resto del tempo. Nemmeno lui sapeva nulla di lei: non sapeva quanti anni avesse, non sapeva qual era il suo colore preferito, non sapeva nemmeno della sua malattia. Lui non aveva contatti, telefono, indirizzo o altri riferimenti: semplicemente ogni tanto si calava nella sua esistenza senza preavviso, la liberava dalle ansie e la faceva sorridere.

Che tutto ciò fosse amore non era la sua preoccupazione. Chiara non si curava di cosa fosse l’amore. Naturalmente gli aveva dato la sua definizione da social network, ma ogni volta che pensava le si fosse presentato o lo aveva respinto terrorizzata, o, illudendosi di gioire, lo aveva accettato come nuda apparenza. Invece quest’uomo non appariva: quest’uomo era. Ed era lì per lei. Così trascorrevano i pomeriggi immersi nelle loro passeggiate, che non partivano in nessun posto e che non arrivavano da nessuna parte.

 

Il sole tramontava lento tra i condomini e proiettava nella luce rossa l’ombra della panchina su cui i due erano seduti. I gelsomini ormai saturavano l’aria, rendendo difficile abituarsi al profumo così forte. Chiara, con il volto illuminato per metà ed i capelli raccolti lungo la spalla opposta, interruppe il silenzio religioso del parco: “Ma dimmi: da dove vieni?” chiese innocente e stupenda. Lo sconosciuto, voltandosi per guardarla negli occhi, avvertì un brivido; ma quegli occhi meritavano la verità. “È difficile da spiegare, vorrei che tu lo potessi sapere senza dover passare attraverso le mie parole… Io sto vivendo un lungo viaggio, Chiara. Un viaggio attraverso il tempo. Io vengo da tra vent’anni. Vengo da dopo la crisi, dopo la guerra, dopo la fine della democrazia: saranno dei sistemi elettronici perfetti a governarci, un giorno. Per questo posso incontrarti solo ogni tanto, senza mettersi d’accordo, senza preavviso. Per questo sono sospeso tra te ed il mio tempo.”. Lei tremava, inquieta e sbalordita, con in volto un’espressione satura d’ansia. “Sono il primo navigatore temporale con un preciso incarico governativo.” – continuò – “Devo impedire ai malviventi di commettere gli omicidi per i quali verranno processati nel futuro. Per ora siamo in una fase sperimentale, e, ti giuro, mi piange il cuore al pensiero che possano interrompere gli esperimenti, amore mio…” Chiara, con gli occhi spalancati, stralunati, raccolse da terra una bottiglia di vetro. Avvertiva un malessere gelido, avvolgente, vedeva scomparire nell’ombra del tempo quello che fino ad allora era stato il soggetto della sua serenità. Avvertiva un tempo freddo, lontano, che scardinava il senso del presente e la sua personale tranquillità: il futuro trascinava quella presenza via da lei. Per sempre. Si sentiva confusa, agitata; non poteva accettare questa verità, non poteva, non era razionale, logico, ammissibile. Non oggi. Alzata di scatto la bottiglia la tenne sospesa in aria qualche istante, per poi frantumarla sul collo dello sconosciuto e scagliare ripetutamente i frammenti contro la sua gola. Avvolta dalla luce del sole, con i capelli imbrattati di sangue ed un’espressione incosciente, era bellissima.

 

* * *

 

“MINISTERO DELLA GIUSTIZIA. PROGETTO MINISTERIALE 4991: RAPPORTO. L’esperimento numero 25 di prevenzione criminale tramite buco temporale, eseguito sull’individuo Corazzini Carlo (CRZCRL13R09D612S), al fine sperimentale di impedire la realizzazione del reato di omicidio da parte dell’individuo Golgi Chiara (GLGCHR91C25C573Z), soggetto a disturbo bipolare, è definitivamente fallito. Al venticinquesimo esperimento è stato riscontrato come gli esseri umani in questione non abbiano mai seguito la linea temporale riconosciuta in precedenza, ma la abbiano condizionata con loro caratteristiche, indici di fragilità emotiva, quali: solitudine, inquietudine, aggressività, sofferenza, innamoramento. Al fine di evitare un dispendio economico sovrabbondante si è scelto di archiviare il progetto.”

 

17 maggio
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Arte di Parole 2013: Racconti perduti e perdenti

Ogni anno, a Prato, viene organizzato il concorso letterario nazionale “Arte Di Parole” per giovani scrittori liceali. Tra i quasi mille partecipanti di questa edizione, spuntiamo io e dei miei amici. Visto che ormai le premiazioni sono concluse, ho chiesto il gentile consenso di costoro per la pubblicazione dei nostri racconti perdenti su questo blog da quattro soldi. Eccoli a voi.

In ordine i racconti di:

– Davide Gritti

– il sottoscritto, Pietro Raimondi

– Dario Bonati

– Paolo Bontempo

– Sara Moioli

Conversazioni

di Davide Gritti

Avrebbe mangiato, il pomeriggio, leggendo, gambe incrociate seduta sul piano in Corian bianco. Seduta sul piano di Corian bianco, pensò. Ogni sette pagine avrebbe inarcato il collo, alzando come una carrucola gli occhi all’altezza della metà della finestra, sul paesaggio semirurale.
La camera da letto di una coppia di trentacinquenni, l’età che, in un paese vecchio, sembrano avere tutti i giovani. Un letto che aveva sempre immaginato come quello di un racconto di Calvino: lui che scalda il letto di giorno, lei di notte, entrambi che cercano il calore del collega, nel rispettivo turno di sonno.
Forse non è un racconto, ma è Calvino. Calvino, che, capì per la prima volta, nel suo letto ci dormiva quando gli pareva.
La visione della realtà- per non fargliene una colpa- è d’altronde mediata da un grande quantitativo di filtri, lenti, vetri, pulviscolo da tapparella alzata, polvere sollevata, respiri, corpi.
Una amica residente, le telefonò da, Berlino al fine di domandarle non senza una finalità più soggettiva il clima sul tavoliere lombardo-veneto, a 215 metri sul livello del mare, che nel loro immaginario e background scioeconomico è certo l’Adriatico, o il Lago di Garda.
-5 gradi celsius, al sole.
Mentì molto. Si registravano almeno 10 gradi, all’ombra e alla luce di uno sguardo buttato ad un Oregon Scientific – non una cabina dell’istituto meteorologico- con termometro esterno posizionato sul terrazzino perennemente assolato a quell’ora.
Non voleva, davvero non voleva sentirsi dire qui a Berlino ci sono 0 gradi ad essere ottimisti, il cielo l’ho visto solo sul Lufthansa. Andremo a prendere caldo quest’estate.
Dandole una temperatura casalinga relativamente tanto bassa, la vanteria dell’amica non avrebbe avuto gran senso. Non è una vanteria, è dire per far sapere, è un’informazione che può non essere data.
Le dispiaceva un poco, forse, mentre fuori le gru si muovono più lentamente di quanto sembra, ma pensò che anche lei mentiva, forse.
Lei la chiamava correzione spontanea e si applica soprattutto ai dati quantitativi. Nelle frasi descrittive si possono utilizzare gli avverbi. Non c’era davvero tanta gente. Forse sono le 11.57. Non le 12, così in approssimazione. Sono le 17.05. Se l’appuntamento era fissato per le 17 e sono le 17 e 4, tipo. L’uso stesso della parola gergale tipo. Ti trovo tipo triste.

Avrebbe smesso, si disse abbandonando la conversazione all’autocompilazione dell’evento di meeting in aereoporto. Il terzo aereoporto per passeggeri lo-cost d’europa, se serviva vantarsene.
Capiva bene che non era più l’aereoporto, era un aereoporto1 creato ad hoc da lei. Sapeva di poter tramutare le cose. Attraverso il metodo introspettivo notò come il vero motivo non fosse la cattiveria.
Telefonò all’amica componendo il numero a memoria. Pare sia iniziata una gigantesca bufera di neve, mi stupisco che le comunicazioni non siano interrotte, ho sentito Mario in Francia e sta benone, per dirti, là fa caldissimo. Bevve pure questa. Aveva amici ricettivi, si fidavano e lei mentiva patologicamente.
Tentò di posizionare su una scala Richter l’ostilità dei genitori dell’amica per l’amica e ne trasse la conclusione che difficilmente fosse stata già messa al corrente del fatto che, perdio, si trattava del più tardivo anticiclone delle Azzorre degli ultimi 15 anni. Temperature stagionali in netto rialzo.
Ricalibrazione,riallineamento di dati, sensazioni e opinioni, oggetti e soggetti.
Quando in autunno si concedeva lunghe passeggiate nel bosco circostante sosteneva vi fossero aceri bellissimi, che poi diventavano castagni, la passeggiata successiva, ma era la stessa cosa, lo stesso albero.
La sua scarsissima conoscenza zoologica, mentiva a sé stessa, la costringeva a mentire, inventando alberi mai esistiti. Un amico di nome Amabile, conosciuto in un villaggio visto su una brochure. Tre giorni di quella che alle amiche diceva essere una rimpatriata-con-un-amico-storico all’anno passati seduta in posizione zen sulle panche della stazione.
-Serve qualcosa, signorina?
-Uno sportello di ascolto?
-Un amico di nome Amabile, connotati a vostra discrezione. Che sappia scrivere, però.
Era pronta al martirio per sostenere le più piccole menzogne.
Dal terrazzino di fronte un retriver partì a fissarla, o forse a fissare il vuoto specifico che tutti i cani sembrano avere come spazio vitale. La visione degli odori, il colore dei sentimenti altrui. Il fatto che per loro il tempo è davvero un fatto relativo alle loro necessità e che, quindi, una volta mangiato possono aspettare il nulla per ore, fissarlo e farci amicizia.
La rotondità ovattata dell’amore postale.

Ho trovato dei bellissimi post-it azzuri a forma di casa, pentagonali. L’effetto casa è apprezzabile solo quando il blocchetto è cospicuo, man a mano la perdita della terza dimensione rende tutto assurdamente schiacciato, come le case dei cartoni animati.
Spero sinceramente che le tue sensazioni in terra straniera siano positive. Riflettevo altrimenti sulle occasioni di vederci. Quando tornerà Gaia dalla vacanza probabilmente andremo a prenderla insieme. Dimmi che dopo averla accompagnata a casa torneremo in aereoporto, abbandonata l’auto nel posto meno assolato e consequenzialmente più brinoso e ghiacciato e gelato del parcheggio grande quanto un parco, e partiremo per il posto più imprecisato del voucher touristico. In questo momento spero tu possa piangere perché ti sto dicendo che andrei con te in qualsiasi luogo, anche a Leninogorsk, Kazakistan. I suoi 80.000 abitanti sono tutti impiegati nell’estrazione di zinco e piombo? La stessa Leninogorsk che fino al 1940 aveva nome Ridden? Tutto ciò come indice stazionario delle mie sensazioni positive verso di te. Mi accorgo solo ora di quanto sia ridondante dire “guardarsi negli occhi”, dal momento che non si può dire di due che guardano l’uno due diverse parti anatomiche dell’altro. Quindi “guardarsi” e basta. Figurati che m’immagino io e te a Leninogorsk in una osteria dove si parla coerentemente italiano e dove si stupiscono che tu ti chiami davvero Mario Rossi. Come è possibile, per dio, guardare negli occhi il mio Mario Rossi e sapere che è l’unico nel mondo a potermi dire “io sono quel ragazzo la cui unica gioia è amarti”, come il mio racconto preferito.
La tua genericità è ciò che mi atterrisce di più, che mi fa relativizzare tutto quello che provo per te. Il concetto tipicamente tuo che tutto è già successo, già inventato, già provato.
Allora perché mai amarmi? Allora perché mai dovresti partire.
Spero solo di essere ancora qui ad aspettarti, per partire al tuo ritorno.

Uno dei più devastanti blizzard dell’europa continentale avrebbe spazzato via l’esistenza della sua migliore amica e del suo innamorato. Si stava augurando un dirottamento.
Il cane sarebbe rimasto a guardarla, sorvolando sulla distruzione della sua vita.
Eppure ci sono delle volte in cui distruggeresti ogni cosa per poi sederti e aspettare che si ricomponga lo schema generale. Oppure distruggersi e vedere il sistema sopportare l’urto con noncuranza.

Quando il piano in Corian incastonato nel muro si staccò di botto piovendo sul pavimento una enorme onda di vibrazione si propagò coerentemente al suo imbarazzo per essersi tirata addosso il cibo e il libro che stava leggendo.
Dal pavimento poteva vedere la diffrazione prodotta dai doppi vetri, il pulviscolo tipico delle case aspirate di fretta. Poteva vedere quello stesso cielo in cui gli unici esseri viventi a lei affini avrebbero volato. Poteva udire un latrato rauco, spaventato, un disperato tentativo di aiutarla, o di far cessare nelle orecchie una vibrazione udita con migliaia di watt di potenza.

Avrebbe atteso il suo ritorno. Mai come ora, prostrata, aveva desiderato di riabbracciarla e confessare tutto, smettere di correggere i dati quantitativi, smettere di cambiare il meteo e mentire gratuitamente e soprattutto smettere di inventarsi Mario Rossi, quel Mario Rossi che non l’avrebbe mai portata via da lì.

Non adesso

di Pietro Raimondi

“Suor Francesca!”

Rumore di passi svelti e leggeri.

“Suor Francesca!”

La vecchia sorella, oltremodo sonnolenta, stringe faticosamente gli occhi, quasi per non precipitare nella profonda mattinata del convento. Qualche uccello canta dal cortile, in un volo di suoni alternati pressoché omogeneo. Agita un braccio verso la finestra e sfiora l’infisso antico; il gesto estremamente faticoso la costringe a lasciar cadere la mano sul pavimento. Qualche istante per tirarsi su, un primo sguardo alla luce e un segno di croce quasi clandestino.

“Suor Francesca! È ora di svegliarsi!”

“Sì! Eccomi!” La sagoma gentile di Suor Chiara s’inoltra cauta nella stanza, per avvicinarsi a Francesca ed aiutarla nei gesti del risveglio. “Sai cosa ho sognato, suor Chiara?” In risposta solo l’infantile silenzio della consorella più giovane, che fissa l’anziana, ansiosa di ascoltarla, nella luce candida e sacrale di cui la stanza è satura. “Ho sognato Santa Cecilia! Santa Cecilia che cantava al Signore! Sapessi quant’è bella la sua voce leggera, con tutti gli angeli del cielo che l’accompagnano! Ti dico che in vita mia non ho mai sentito musica più bella!” “Non ne dubito, Suor Francesca, non ne dubito.”

 

Intanto Maria, lontana qualche centinaio di chilometri, accende il piccolo televisore della cucina e si appoggia al tavolo, regge il caffè lungo con entrambi le mani e, un po’ gobba, lo sorseggia con espressione assonnata, gli occhi fissi sulla tivù. Mentre lei lotta per svegliarsi, passano immagini di qualche paese lontano: tendopoli, gente sdraiata su delle lettighe, bambini che piangono, donne che urlano di dolore. Le quali immagini, in questo contesto, non intaccano minimamente la sensibilità di  Maria. Accendere sul TG3 Buongiorno Italia alle sette è un gesto che fa per sforzarsi di iniziare la giornata, come pigiare l’interruttore della luce, scaldare il caffè, togliersi il pigiama e lavarsi la faccia. In questo senso una notizia di politica locale ha per lei la medesima rilevanza di una cronaca internazionale. L’audio della tele, tenuto sempre bassissimo, quasi bisbigliato, non ha altro scopo se non riempire il silenzio gelido dell’appartamento. Non è che non presti attenzione alle notizie, anzi, nient’altro la può distrarre, semplicemente a quell’ora non ha le capacità cognitive per accettare quel tipo di dati, ne sfrutta solo i colori per attivare più in fretta il cervello. Intanto le immagini passano, i servizi continuano ed una voce preoccupata continua a bisbigliare cose terribili da dentro il televisore, ma Maria non se ne può accorgere. Non adesso.

Solo alla prima chiamata di Fabrizio, Maria realizza la portata delle notizie che prima aveva ascoltato. “Hai sentito cos’è successo?” Sì, lo aveva sentito, lo aveva visto, ma solo adesso capisce realmente di cosa si trattasse: “Sì, è terribile, ma sai – continua – sai se è stato riscontrato qualche caso anche qui da noi?”, “Sembra di sì.” Maria tace. Queste ultime tre parole sono state il vero discrimine tra la quotidiana mattinata di routine e l’evento inatteso e struggente. Queste ultime tre parole, farfugliate nella cornetta, la hanno caricata di un peso tutto nuovo, inquietante e tremendo.

 

Suor Francesca non sa di preciso cosa sia un televisore. Le sorelle ne parlavano oggi lavorando: si era rotto quello nel seminterrato e, non sapendo a chi rivolgersi, avevano deciso di infischiarsene, tanto lo guardavano così raramente… Ma cosa ci sarà da guardare in un televisore? Lei è anziana, mica le sa certe cose. Entrata in clausura a diciannove anni, quando nemmeno si aveva il sospetto che potessero essere inventati aggeggi simili, ogni volta che la vita le ha dato qualche possibilità di vedere una trasmissione in tivù, per un motivo o per l’altro non l’ha fatto. Così di tanto in tanto sente parlare di televisione, ne riconosce l’esistenza, ma nel dettaglio non sa come e perché funzioni. La vita in convento non è qualcosa di etereo, in convento si vive di realtà. Ma la realtà si svela qual è: in convento il tempo esiste in funzione del suo termine e del suo origine, per questo è scandito dalla preghiera. In convento il lavoro esiste nella sua funzione vitale, dunque spirituale: è un modo diverso di pregare, di riconoscersi a vicenda e riconoscersi in Dio. Ma, ormai, tutto questo non ha a che fare con il mondo fuori. Francesca sa come è il mondo fuori, ma quello di sessanta anni fa: di adesso le restano la veranda, la campagna, il mare e qualche medicina.

 

“Le industrie farmaceutiche americane non sono state in grado di rispondere alla domanda in crescita esponenziale di vaccini. L’infezione  sta invadendo gli Stati Uniti”. “Cazzo” Maria fiata incredula. No, non è possibile. Non è possibile morire di quella roba lì. È una settimana che i telegiornali non parlano di altro ed è una settimana che lei non pensa ad altro. La Katia le ha detto che suo marito ha comprato mesi fa un bunker privato, Fabrizio non ha neanche i soldi per l’affitto di quello sputo di appartamento. Ma tanto a chi importerà qualcosa dei soldi, alla fine? La verità è che tutto le sembra così assurdo, così irreale che non riesce neanche a disperarsi. Prova solo paura, una paura totale, continua. La paura non è un’emozione a cui ci si abitua, se si ha paura non si ha pace.

 

Suor Anna ha finito i biscotti da sola, lasciando un po’ di pace a Francesca per riposarsi. Seduta di fianco al tavolo di legno scuro recita il Salve Regina sottovoce, ogni tanto alza gli occhi verso la scritta “Pax vobis” sopra la finestra per poi richiuderli tutta piegata sul rosario. Suor Francesca si sente rilassata, in pace con sé stessa: pregando dona al suo respiro affannato un ritmo costante, al suo cuore battito regolare, alla sua mente riflessione serena e soprattutto è convinta di non essere sola. Momenti come questi sono all’ordine del giorno, ogni giorno, ma hanno smesso di annoiarla ormai da anni, adesso si sente pienamente nella casa del Signore.

 

“Fabrizio? Fabrizio, sei in casa?”, “Sì, eccomi.” Maria tira un respiro di sollievo come riconosce la voce dell’amato. Lui la raggiunge in camera da letto e le accarezza la fronte, mentre le dice, con la voce bassa con cui si raccontano le storie ai bambini, che hanno chiuso anche l’ultimo campo di quarantena, che non c’è più spazio. “Ormai tutta la periferia diventerà un enorme campo di quarantena” sospira Maria. Fabrizio tace e la guarda negli occhi. “A volte mi sembra che tu non te ne renda conto.” La giovane sposa alza all’improvviso la voce, in un grido disperato: “Ma capisci? Capisci che non passa giorno? Non passa giorno che io non senta la morte?” Fabrizio resta in silenzio. “Si sono ammazzati tutti i nostri vicini, te ne rendi conto? Tutti! Siamo gli unici a esistere in un condominio di fantasmi, Fabrizio. Moriremo, moriremo, moriremo!” Maria scoppia a piangere e nasconde il viso all’ombra di un abbraccio. “Maria, io me ne rendo conto. So che è difficile da accettare, ma io sono disposto a vivere finché il virus non mi avrà distrutto l’ultima cellula. Ne vale la pena.” “Ne vale la pena di che? Di distruggersi nell’attesa di essere distrutti?”. Fabrizio guarda fuori dalla finestra chiusa e sbarrata, poi stringe più forte Maria. “Ne vale la pena anche solo per poterti morire accanto” dice quasi sorridendo. Maria deglutisce, si passa una manica sulle lacrime e sussurra a mo’ di presa in giro: “Dove la trovi questa vita?” “Tra le tue braccia”

 

Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza””. Padre Mauro sale dal convento benedettino giù in valle ogni domenica per dire messa. Suor Francesca una volta se n’era innamorata. Certo, era giovane e non sapeva nemmeno cosa volesse dire innamorarsi, ma era certa che quella domenica lei pensava specialmente a Padre Mauro, si chiedeva di lui quando non c’era e sussultava nel vederlo. La cosa durò qualche mese, in cui Francesca aveva pregato molto, ma poi, di domenica in domenica, padre Mauro tornò ad essere solamente il frate che veniva a dire messa. Dopo molti anni, confessandosi, gli aveva riferito anche questa cosa e tutti e due scoppiarono a ridere, senza un preciso motivo, solo grati a Dio di essere al mondo. Ripensando a questi fatti, Francesca sorride gentilmente dal fondo della cappella e torna ad ascoltare il Vangelo.

 

Un respiro, un vuoto inquietante ed un altro respiro. Tosse, tosse roca e violenta, che lascia la gola dolorante e che fa mugolare di sofferenza. Agitarsi, contorcersi con fatica disumana. Uno sguardo disperato al soffitto. Un assurdo alzare le braccia. All’improvviso il senso della morte. L’ultimo istante, gli occhi si spalancano per poi chiudersi, inaspettatamente.

Così, dopo una notte di sofferenze, le consorelle trovano morta la cara Suor Francesca, pallidissima nel letto, con le braccia lungo i fianchi e un sorriso, inatteso.

 

“Così ti stringo forte, grido, amore, cerco il bene nell’orrore e l’eterno nell’età”

(Baustelle – Radioattività )

Dono

di Dario Bonati

Alla nonna serviva la farina. Per la pasta serviva la farina. A comprare la farina ci andai io, ovviamente.
In fondo alla via che portava alla piazza, un’ampia curva verso sinistra nascondeva un piccolo negozio di alimentari. Più o meno verso la metà della strada, un omino imbacuccato in un vestito grande forse il doppio barcollava tra un caseggiato e l’altro cantilenando frasi sconnesse tra di loro.
Non capivo proprio se era pazzo oppure semplicemente c’era qualche persona invisibile nascosta in qualche vicolo laterale. Poi, accostandomi il più possibile al muro per non farmi vedere, lo superai. In un attimo, le luminarie preparate dal Comune si mostrarono sfavillanti e decadenti. Il riflesso di una bottiglia di vetro scivolò tra le mani dell’uomo. Allora capii.
È quasi Natale, signori.

* * *

Nel piccolo paesino circondato dalla piatta e nebbiosa pianura, un grosso edificio ottagonale si stagliava tra querce e antichi castagni. Era di un colorino giallo limone, ormai consunto dalle intemperie e che ben si accostava all’arlecchinata delle foglie abbandonate dall’autunno.
Era un vecchio Liceo classico che ormai contava solo tre sezioni per anno, salvo qualche eccezione.
Mancavano poche settimane all’antica festività della luce e della rinascita.
A girare per le strade eri soffocato dal perbenismo più antiquato simboleggiato dalle decorazioni sfavillanti. I centri commerciali eccedevano di regali colorati; signore di mezz’età lo occupavano alla ricerca di doni sempre uguali fra loro, mentre all’asilo nido i bambini preparavano piccole collane di pasta da regalare ai nonni durante il solenne pranzo. Gli unici Regali meritevoli di questo nome, anche se, a dirla tutta, erano un po’ bruttini.
In seconda ginnasio, l’insegnante di religione trascinava i poveri alunni verso l’importanza di questa festa ormai dimenticata. Era un piccolo curato venuto dal Trentino. Una barbetta rossiccio pallido incastonava un volto benevolo e spesso sorridente; gli occhi un misto tra uno sguardo sempre attento e un’ombra di riflessione che non veniva mai descritta in tutto e per tutto dalle parole.
Con il suo trascinato accento tirolese parlava di salvezza. Parlava dell’attesa che costituisce tutto l’Avvento e si sentiva sicuro. Sicuro e determinato, il tutto solo perché si era accorto che tra le 23 persone che si interessavano alle svariate forme che un pezzo di carta possa prendere o agli ultimi risultati della Serie A, ce n’era una, una sola, che sembrava seguire.
La prima cosa che notavi di Giulia erano i capelli. Fantastici. Probabilmente, quei riccioli così sinuosi e quel colore striato d’oro che ricordava l’ambrosia, li aveva creati Venere in persona. E poi, c’era un non so che di affascinante in quel suo sorriso, nobile e spensierato allo stesso tempo.
Spensierati e attenti, gli specchi dell’anima giravano per la classe a seguire quella danza di parole che il don metteva in scena.
Subito dopo il consueto appello mezzo falso e mezzo irreale, una parola era comparsa magicamente sulla lavagna, gesso rispettosamente color rosso.
Tempo.
Per prepararsi al Natale c’è bisogno di tempo. Di tanti giorni, sempre uguali, sempre banali. Un bambino piccolo sa che il giorno del suo compleanno arriverà un regalo, lo spera, ma l’abitudine degli altri anni lo fa giungere alla certezza. Sa tutto questo. Quello che non sa è cosa gli sarà regalato. Allora i cinque, dieci giorni prima del giorno tanto aspettato, continuerà a pensare a quel regalo. Solo così il regalo diventa qualcosa di più. Non è più solo un dono, ma il compiersi di un’attesa. Così è il natale, un regalo per dei bambini piccoli.
Le ultime parole della lezione terminarono offuscate dal suono opaco della campanella.
Giulia uscì dall’aula per ritornare a casa. Quella di religione era l’ultima ora del venerdì. Nel tragitto, poco dopo la scuola, all’ultimo piano di un piccolo palazzo sulla destra vide una finestra e dietro di questa un bambino, un bambino che sorrideva e la salutava. Rispose a quel cenno infantile quasi sollevata per poi non pensarci più. Entrò in casa scontrosa e senza salutare nessuno. Come potevano quelle parole così… vere, del don c’entrare in qualche modo con l’ingombrante fanatismo che opprimeva quell’abitazione? Tutti gli anni i genitori e la sorellina più piccola mettevano a soqquadro la casa per preparare un piccolo presepe. Così anche quest’anno ci sarebbero state grottesche luminarie e stinti addobbi in giro per il soggiorno.
Così anche quest’anno ci sarebbero state discussioni interminabili e silenzi pieni di astio per la voglia prossima allo zero di festeggiare l’inutilità fatta persona.
Qual è il senso?
È tutto un trafficare sottobanco di gioia e candore. Un mercato nero della pace.
Sono emozioni false, che nascono ogni anno e muoiono ogni anno. Così all’improvviso, non centra il tempo.
Mio caro Dicembre, non puoi nascondere tutto questo fango sotto un così sottile strato di neve. Non c’è un senso, nelle azioni umane. Perché fanno questo o quest’altro?
Siamo tutti sudditi di un monarca. E non si tratta del fato. Ossequiosi omaggi a sua maestà Ipocrisia Insensata.
Nelle ultime due settimane prima delle vacanze che le numerose interrogazioni facevano agognare, Giulia fu costretta per due volte al giorno a ricordare le parole ascoltate durante quell’ora di religione e a ripensare al suo dolore familiare. A costringerla era sempre quello stesso bambino che aveva incontrato quel giorno. Sia all’andata sia al ritorno c’era all’ultimo piano del palazzotto sulla destra quello stesso sorriso e quello stesso saluto. Ogni giorno.
Ricordava le parole del don sulle ore, sui giorni che sono necessari per avvicinarsi a qualcosa. Con quel sorriso e quel saluto era andata esattamente così. Piano piano li aveva assimilati, fino a renderli quasi indispensabili per iniziare e finire la giornata scolastica.
La nonna, che era a conoscenza di vita, morte e miracoli della maggior parte degli abitanti, le aveva raccontato di come una coppia di meridionali si era stabilita in quello stabile sulla destra. Il loro figlio soffriva di una malattia incurabile ed era sempre rinchiuso in casa. Non poteva uscire. Mentre i suoi lavoravano per permettersi l’indispensabile, la sorella maggiore che aveva già terminato gli studi lo accudiva.
“Questo è tutto quello che so”. Disse prima di mandarla a prendere la farina. Aveva iniziato a nevicare e per lei faceva troppo freddo. Largo ai giovani.

* * *

Uscita dal negozietto mi fermai sul primo di tre gradini che conducevano alla strada e assaporai la neve che veniva giù copiosa. Lo sguardo era un continuo su e giù dal cielo verso il suolo dove dolcemente, fiocco dopo fiocco una candida coperta veniva stesa. Un bianco vortice mi avvolgeva e mi accorsi di desiderare che quello spettacolo continuasse. In quel momento non poteva avere fine. Ad ogni falda che scendeva ne attendevo immediatamente un’altra.
L’incantesimo si ruppe appena abbassai il viso pronta per il ritorno. Decisi però di prendere un’altra strada e passai dalla scuola. Il tono giallo, incupito dal pomeriggio inoltrato, sembrava più spettrale del solito. Mi avvicinai all’ormai nota casa. Come sempre, il bimbo era lì. Sembrava molto stanco. Questa volta non mi salutò. Mi fece cenno di fermarmi e una serie di luci si accesero dall’alto dell’edificio fino al pianterreno. Il grosso portone di ingresso in rovere si aprì e una figura minuta si fece avanti consegnandomi un pacchettino.
“Questo è da parte di mio fratello, buon Natale!”
Non ebbi neanche il tempo di rispondere che subito si era già rifugiata nel calduccio accogliente della casa.
Tornata dalla nonna, le lasciai i pacchi di farina sul tavolo in cucina per poi scartare l’involucro del regalo. Una piccola statuina di Gesù bambino nasceva dalla carta. Le varie imperfezioni dimostravano che era stata creata a mano. I colori erano opachi e pennellati malamente, ma poggiandolo sul pagliericcio in mezzo alla capanna, ero commossa.
Finalmente, un senso. In quel presepe dove prima un’Assenza valeva più di tutte le altre presenze, ora c’è un senso, più piccolo e più grande di tutto il resto.

 

Noia Mortale

di Paolo Bontempo

Luce, luce? La luce, apro gli occhi e… non vedo un cazzo! A già, dimenticavo di avere quasi novant’anni, una moglie deceduta, pochi parenti, nessun figlio e… e una vista pessima. Abbandono il calduccio del mio lettino e mi accorgo di odiare i diminuitivi. Preparo il solito caffè decaffeinato, mi siedo sul divano invano, un minuto e mi rialzo, alzo gli occhi verso il calendario, il dottore! È un mese che ogni tanto ogni santo giorno mi reco (che brutto verbo) da lui, senza appuntamento, e la segretaria, dopo otto ore, mi urla (deve avere problemi di udito, ha il mignolo monco) che il dottore è stanco, di tornare un altro giorno. Ma oggi mi visiterà, me lo sento. Mi metto il pigiama, esco di casa. Sole, sole le ragazzine per strada vestite in quel modo che vergogna perché tutt’a un tratto codesto moralismo perché uso l’aggettivo codesto dev’essere colpa della mia professoressa dell’elementari che ricordi di merda di quella bellissima infanzia. Sale, sale la rabbia abbaiando nel mio cervello senza un motivo preciso senza che io me ne accorga ma affinchè io la constati e poi perché dico affinchè ha un suono così retrò e perché uso codesto aggettivo se non ne so neanche il significato. Chiudo gli occhi per non vedere nulla. “Buongiorno signor Cane” mi dice affettuosamente un bambino di nove anni, mio unico conoscente, “buongiorno amico mio” gli rispondo dolcemente affettandolo mentalmente, poi per farlo ridere sottovoce gli sussurro “Vaffanculo”(sta imparando tutte le parolacce, piano piano, una a ogni incontro, non ha fretta di crescere o almeno così mi lascia intendere quando non riesco a capirlo dato che avrà si e no all’incirca due anni e una madre extracomunitaria e un padre in forse). Non è che io odio la gente, le persone, mi ritengo solo personalmente più intelligente o comunque leggermente tanto superiore.
Bella Belluno di mattina adesso che è sera e fa un freddo gatto lo posso dire. Cammino per cinque minuti lungo un vialetto leggendo “AION” noto quotidiano di Noto, nota città Siciliana, regione italiana.
“Studio Medico” noto scritto fuori dalla porta, non importa se il nome del dottor non è esplicitato passerà qualche ragazzo con una bomboletta e correggerà il tutto con tanto di svastica finale. Entro, “entro le 19.30 il dottore la visiterà” esordisce la segretaria con una voce a dir poco, “Attenda, grazie” conclude con una voce altrettanto.
Erano le nove di mattina, avrei dovuto aspettare ore ben tre o anche di più se sapessi contare. Dato che non sono stato mai in grado di osservare, studiare, i meccanismi, i comportamenti umani (forse perché non riuscivo a spiegarmi neanche il mio), avevo portato il mio computerino portatile, per guardare un film. Optai per “Quel pomeriggio di un giorno da cani”, ma quando cliccai start il computer si impallò, spuntò una di quelle notifiche insopportabili, “si è verificato un errore”, poi andò letteralmente in tilt, una vocina di donna fastidiosissima continuava a ripetere “Attendere prego, attendere prego attendere prego attendere prego” STooop! Tirai un pugno al computer e lo gettai a terra. Che rumore Infernale. Alzai gli occhi e mi resi conto che non ero solo. Ben tre bambini con le rispettive madri, più un papà, leggermente scazzato, come direbbe mio nipote, che non ho. Il silenzio fu rotto da un “che cazzo vi guardate” che esclamai violentemente, facendo persino ridere i tre bambini di tre anni ciascuno, o poco importava, almeno a me, la loro età. Poi la situazione tornò normale. Mi toccò annoiarmi, provare dopo quasi 60 anni, o più o meno tanto non so contare o forse ne ho perso la voglia o forse non ne ho il tempo, ad aprire gli occhi, non nel vero senso della parola, come non direbbe nessuno. Un padre che abbraccia un figlio, una madre stanca e annoiata, incapace di uscire dalla schematicità della propria vita figli lavoro lavori di casa figli casa figli sonno figli, un’altra madre che si addormenta sulla spalla del figlioletto. (cos’è questa sensazione?). Volgo lo sguardo al muro, c’è una scritta in primo piano, disegnata sicuramente da un ragazzino: “Ciao”.(che cos’è questa sensazione?). L’atmosfera è adesso rilassata, nessuno ancora è stato visitato dal dottore, eppure sono passate già due ore. Alle 10 e 10 entra un signore, sulla cinquantina, evidentemente malato, ma ha la forza di salutare: “Buongiorno signor Cane” mi dice ma io non lo conosco io non so chi sia. (che cos’è questa sensazione?) Eppure come fa a conoscere il mio falso nome, o comunque, come fa a conoscere il nome con cui mi faccio chiamare da quel bambino mio unico amico e no non può essere il padre non ce l’ha oddio tutto questo aspettare tutto questo vivere mi sta cambiando . (che cos’è questa sensazione). I bambini hanno cominciato a giocare fra di loro, e ridono, e non pensano, e ridono. Una madre mi comincia a fissare, e non mi molla un attimo. Il cinquantenne mi sorride. Uno dei ragazzini mi chiede di giocare con loro e io..e io beh io, e io, e io? Io, così, con la stessa rapidità con cui cambio i canali del mio televisore, con la stessa velocità con cui penso una parolaccia, capisco che tutto quello che sto vedendo è sempre stato là, fuori , nel mondo in cui io abitavo, nel mondo che non ho mai amato che non ho mai odiato che non ho semplicemente mai avuto e cosa mi stava succedendo un’Amnesia io avevo già vissuto quello che volevo vivere io non capivo mi sentivo vuoto mezzo pieno pieno di sostanza vuoto di vita non avevo tempo da perdere dovevo andarmene fregarmene della visita uscire e scoprire vedere osservare una sensazione descrivibilissima mi assalì si…mi alzai di scatto, tutti mi guardarono, i bambini smisero di giocare, il cinquantenne risorrise come se avesse già capito le mie intenzioni le madri le madri beh non le ho guardate in faccia cazzo sinceramente, gridai: “è finalmente giunta l’ora! È finalmente giunta l’ora”, ma si aprì la porta, la segretaria mi guardò e disse: “Signor Cane, Il DOTTOR MORTE la sta aspettando!”.

 

Alibi

di Sara Moioli

 

Si sedeva scomposta sempre sulla stessa panchina. Forse ci andava nei ritagli di tempo di una vita disordinata. Fissava un dettaglio, una foglia, un mondo smisurato, pareva una strana statua assorta. Talvolta estraeva dalla tasca un piccolo quaderno rilegato in pelle e prendeva qualche appunto. Aveva una mano leggera e veloce e una calligrafia indecifrabile. Un viso dai lineamenti lontani, marcati, seri, belli, che confluivano morbidi nelle labbra dal disegno puro. Le sopracciglia lunghe e sottili incorniciavano gli sfuggenti occhi castani. I capelli corti sempre scompigliati parevano quelli di un bimbo appena uscito da un sogno. A volte le sfuggiva un sorriso vago da qualche pensiero.
La ragazza passava lì molto tempo. Aspettava. Senza orologio. Non fumava ma a volte pareva che le parole non le uscissero dalla mente e che avesse il desiderio di avere in mano una sigaretta e non una matita, per rendere fumo i suoi pensieri. Sospirava, chinava la testa, distoglieva lo sguardo. Forse in quei momenti le sovveniva un ricordo particolarmente tagliente. Forse la realtà infame squarciava la tiepida penombra dei sogni in cui amava accucciarsi.

Pareva che la vita della ragazza stesse tutta nell’aspettare – non in ciò che aspettava, di questo ero certa. Era lei stessa sospensione in cui il tempo si vestiva di ricordi, immagini, sogni, parole dette e sperate e dimenticate e brucianti, persone incontrate e fuggite, labbra, mani, scempiaggini. Era l’attimo tra un respiro e l’altro.
Ogni giorno mi affacciavo alla finestra. Speravo sempre di vederla. Quando non c’era sentivo una sottile angoscia tra lo stomaco e la coscienza, mi chiedevo dove fosse, perché non fosse lì, forse le era successo qualcosa o forse se n’era andata per sempre. Forse aveva finito le pagine del suo quaderno senza aver finito la storia che voleva scriverci ed ora vagava disperata senza sapere cosa fare. Continuare altrove, cominciare un’altra storia, andare altrove a vivere un’altra vita? Cercavo di distrarmi. Tornavo alla finestra. Mi scoprivo inquieta, accendevo una sigaretta dopo l’altra senza finirne nessuna – io fumo. Aspettavo. Con l’orologio. Quasi in apnea.
Quando finalmente ricompariva respiravo, mi accostavo al davanzale. Prendevo la matita, il mio quaderno, che era già – che era sempre – aperto sul suo ritratto e aggiungevo linee, sfumavo contorni, correggevo chiaroscuri. Mi piaceva guardarla. Mi piaceva chiedermi cosa aspettasse. Forse aspettava il coraggio di smettere di aspettare. Forse non aspettava affatto, forse pensava. Forse ricordava. Forse viveva. Trasformavo in linea ogni sguardo che riuscivo a cogliere, ogni gioco di luce sul suo volto. E smettevo di aspettare e di fumare.
Non so dire cosa mi piacesse di lei. Nei suoi occhi c’era un richiamo antico, di un colore che non riuscivo ad afferrare. Forse mi piaceva proprio il suo sfuggirmi, lì si celava la sua profonda libertà.
L’estate volgeva al termine. I passi dei mattinieri silenziosi scricchiolavano sulla brina. Una nebbia sottile consolava i pomeriggi e ciascuno si sentiva libero di abbandonarsi ai suoi piccoli vizi, grato nel profondo alla discrezione della prima foschia. Gli alberi si venavano di rosso, striando i boschi del loro bruciare eterno e quieto. Mi piaceva l’autunno. Amavo i suoi colori e i suoi grigi. Ma questa volta la tranquilla malinconia della stagione era turbata dal pensiero che avrei potuto non vedere più la ragazza per mesi e forse per sempre. Vedevo sempre più spesso rondini inquiete in attesa lungo i cavi dei tralicci, sempre più di rado la ragazza seduta sulla panchina. Eppure non avevo il coraggio di avvicinarla. Il ritratto non era finito, mancava un certo colore del suo sguardo che si ostinava a sfuggirmi. Ma doveva esserci: la sua attesa era diversa da tutte le altre.
Vagavo disordinata tra questi pensieri mentre aspettavo il treno per tornare a casa. Attraversai il parco come di consueto, ma questa volta quasi senza rendermene conto mi diressi verso il punto in cui la ragazza si sedeva – di solito evitavo di passare di lì per lo strano timore di vedere il mio ritratto andare in cenere. La ragazza era lì. Seduta scomposta sulla solita panchina, il piccolo quaderno rilegato in pelle, la matita sospesa tra le dita, le dita delle Grazie di Botticelli, i capelli scompigliati, l’espressione assorta, gli occhi lontani, dalla linea imperscrutabile, le labbra dal disegno puro. C’era una tale bellezza in lei – mi si gelarono il sangue e il respiro, la mia mente fu distolta da ogni cosa. Per un istante fui nel suo invalicabile limbo nebbioso, abissale.
Mi fermai fissandola. Non si accorse subito della mia presenza. Sollevò lo sguardo verso di me, in silenzio. Senza smettere di guardarmi negli occhi – ora più che mai quel colore mi avvolgeva senza farsi scorgere – chiuse il quaderno, lo infilò nella tasca interna della lunga giacca nera.
– Vuoi sederti?
Aveva una voce calda, profonda, che mi sciolse. Mi sedetti accanto a lei.
– Ti vedo spesso qui, sai, io abito nel condominio di fronte, sono una disegnatrice, faccio illustrazioni e qualche esposizione, se hai voglia di venire a bere un tè da me mi farebbe molto piacere, ti faccio vedere i miei lavori, se ti va naturalmente.
Le parole uscivano, uscivano, parevano infinite e riempivano l’aria con il loro suono precario e disordinato. Lei sorrise, un sorriso bellissimo che raramente le avevo visto, mi rispose con la calma che connotava tutti i suoi movimenti.
– Volentieri, mi piace molto il disegno. Io purtroppo non ho mai avuto un gran talento. Sono le parole il mio mondo, la mia vita e – aggiunse con un sorriso ironico, pieno di impliciti – anche la mia morte. Ad ogni modo – disse tendendomi la mano – io sono Silvana.
– Elena – risposi, ricambiando il sorriso.

Non so quanto tempo trascorse da me. Il pomeriggio sembrò una vita, la vita come appare nell’ultimo respiro, intensa, soffocante, breve.
Mi scusai per il disordine, lei sembrò non farci caso, anzi, parve a suo agio. La feci sedere nel salotto e la lasciai sola per andare a preparare il tè. Quando tornai la trovai in piedi accanto alla libreria mentre osservava i titoli e le suppellettili mischiate alla polvere, alle macchie di caffè bevuti in ritardo e d’inchiostro distratto. Sopra ai libri erano ammucchiati disegni incompleti, schizzi ormai irriconoscibili.
– Hai una bella libreria – mi disse voltandosi – questo è uno dei miei libri preferiti – sorrise sollevando una vecchia edizione di Una stagione all’inferno.
Parlammo a lungo. Disse di lavorare in un caffè del centro storico per qualche ora la settimana. Il suo sogno però era scrivere. Amava scrivere e mi confessò – sul suo viso si dipinse un’amarezza sconfinata – che da qualche tempo non trovava le parole. Si sentiva imprigionata nelle stesse parole che non sapeva che scomporre e ricombinare all’infinito, sempre più vuote, sempre più vuote. Mi chiesi se fossero nuove parole ciò che stava aspettando. Mi chiesi se avesse senso aspettare le parole, mi pareva assurdo come aspettare nuovi colori, senza cercarli in altri luoghi, in altri occhi.
La invitai a tornare il giorno seguente, ormai si era fatto tardi ma mi avrebbe fatto piacere rivederla. Accettò volentieri. La salutai con un gesto della mano in cui si nascondeva l’esitazione dell’abbraccio – la medesima che percepii nel movimento sospeso delle sue dita.
Tornò il giorno dopo con un leggero ritardo di cui non si scusò. Questa volta non rimase in salotto e mi accompagnò in cucina mentre facevo bollire l’acqua. La mattina avevo cercato qualche tè particolare da offrirle e ne avevo comprato di tre o quattro diverse qualità. Scelse un tè orientale al gelsomino. Mi raccontò che era il tè che ordinava quando faceva colazione con una persona molto cara, qualche anno prima. Lo disse con nostalgia calda negli occhi ed io mi sentii onorata di essere messa a parte di quel ricordo. Forse aspettava la stagione giusta per tornare tra le braccia di quella persona cara.
Il tempo trascorse veloce. Cominciavo a temere che non sarei mai stata in grado di domandarle cosa stesse aspettando. Il mio ritratto sarebbe rimasto irrisolto. Aspettai il silenzio, chiusi la mente, sussurrai
– Cosa stai aspettando, Silvana?
La ragazza mi guardò – di nuovo il colore mi avvolse, denso, inafferrabile – sorrise, tacque.
– La domanda è cosa stai aspettando tu, Elena. La tua casa è piena di libri di colori di macchie di ricordi affastellati. Cose senza destino che appoggi nel disordine della tua giornata e restano sospese in un presente fatto di sistemerò domani e quel domani non arriva mai e i pensieri e gli schizzi restano tra i libri mai finiti. Tu mi osservi e mi ritrai e sei preoccupata di non finire il ritratto. Ma in realtà hai paura che non riuscirai mai a chiederti cosa sto aspettando, maledizione?, a finire il tuo autoritratto e ad andartene, finalmente, dopo aver sistemato e venduto questa casa.
Mi si fermò il respiro. Mi sentivo nuda e ferita. Come sapeva che la stavo ritraendo? Solo più tardi intuii nel suo squartarmi calmo una fuga profonda e ben nascosta. Stavamo entrambe fuggendo. Non sapevamo partire, temporeggiavamo giocando a nascondino in una selva di chiaroscuri dai contorni imprecisi.
Si alzò. Mi disse che mi aspettava da lei il giorno seguente. Rimasi seduta, ancora stordita e sanguinante. Passò dietro la mia sedia toccandomi lievemente la spalla e se ne andò senza voltarsi.
Il giorno seguente accesi infinite sigarette e le guardai consumarsi senza neppure portarle alle labbra.

Il calore affettuoso del tè sciolse il ghiaccio che percepivo dopo lo strano saluto del giorno precedente. Chiacchierammo tranquillamente per un po’, poi non ci fu altro che queste parole evase
– Sai, io al liceo non ero granché in latino ma mi ricordo alcuni dettagli che mi avevano colpito. Come la parola alibi. In latino significa altrove. Ogni volta che ti osservo dalla finestra mentre sei lì scomposta sempre sulla stessa panchina con i capelli scompigliati e il quaderno e quella maledetta voglia di avere una sigaretta tra le tue dita come le Grazie della Primavera di Botticelli mi appari immersa in un altrove lontano, maledettamente lontano. In un alibi, in un maledetto alibi. E non fai che guardarti intorno e sei nella tua terra di nessuno e non puoi vedere altro, non puoi trovare altro, nuovi colori, nuove parole, nuovi sapori di tè. Cosa ti manca per partire, Silvana?
La ragazza mi aveva osservato seria. Non era mai stata così bella. Mi pareva di annegare nel colore del suo sguardo – ma che colore era, maledizione, che colore era?
– Tempo fa affidai le mie armi ad una persona che non aveva gettato le sue. Da allora aspetto che torni a riportarmi ciò che mi appartiene.
– Non lo farà.
Tacque. Mi salutò con freddezza indecifrabile. Mi voltai e cominciai a scendere la prima rampa di scale. Sentii le sue braccia attorno al collo – profumava di gelsomino. Mi immersi nel profondo silenzio sacro di quell’abbraccio.

Non la rividi più.
Una mattina di fine autunno trovai una lettera. Era scritta da una mano leggera con una calligrafia indecifrabile.
“Cara Elena, sono partita. Per dove non ha importanza. Luoghi dai colori inimmaginabili, dove le parole hanno suono e fascino. Forse pubblicherò un libro, forse te lo dedicherò. Ti scrivo per dirti che non devi mettere in ordine casa tua né venderla. Vivi nel tuo caos. È lì che si nasconde ciò che cerchi. Ma parti comunque: ci sono luoghi dai colori inimmaginabili. E bar in cui servono ottimi tè orientali. Con affetto, S.”
Sorrisi. Perché mi aveva scritto quella lettera? Fissavo il foglio senza guardare le parole. Mi sentivo affogare nel colore del suo sguardo – da dove veniva, da dove veniva? Poi capii. L’inchiostro. Il tratto leggero e incomprensibile delle parole era quello di una penna stilografica. L’inchiostro aveva il colore grigio tenue della nebbia, del deserto quando si alza la sabbia. E del suo sguardo. Finii il ritratto, lo misi in tasca. Chiusi la casa – senza sistemarla. Partivo. Senza orologio, né valigie, né sigarette.