Capita
Vedremo l’alba,
ma la scorgeremo
appena riflessa
sulle pareti
di un palazzo
condominiale,
per poi sparire.
Per poi sparire,
per poi tornare
al nostro fare,
al nostro minimo
resistere
di malanimo.
Vedremo l’alba,
ma la scorgeremo
appena riflessa
sulle pareti
di un palazzo
condominiale,
per poi sparire.
Per poi sparire,
per poi tornare
al nostro fare,
al nostro minimo
resistere
di malanimo.
Preziosissima luce,
candore innamorato,
lasci un petalo rosso
ad ogni metro di prato.
Ad ogni nuovo sguardo
combini un cielo diverso.
Scusatemi il ritardo,
mi ero perso tra le foglie.
Pagine sfogliate,
Respiri strozzati,
Scatti di penne,
Vibrazioni e
Silenzio.
Auto spente,
Tronchi bruciati,
Alberi d’autunno,
O solo in fiamme?
Finestre accese,
Porte chiuse,
Le sette di sera,
Brina e marciapiedi.
Scarpe bagnate
E fotografie
Della scorsa estate.
Quando calpesti
Le foglie, ascoltale
Morire.
Un bimbo, uno zingarello,
guarda tranquillo il mare.
Il sole che tramonta
si guarda negli occhi scuri.
Guarda la scia della barca
che arriverà all’isola che
non ha mai visto
E sogna sogni clandestini.
un uomo in cenere,
sporchissimo di polvere,
dorme sulla panchina.
Lascia cadere la mano,
che tanto ha rubato,
ma non ha mai toccato
E sogna di quando
guardava il mare
e sognava sogni incomprensibili.
Né i discorsi,
Né i giornali,
né i partiti,
né i sindacati,
né le associazioni,
né le nazioni:
Nulla mi muove
come la luna
grande e lontana.
Il vecchio raccoglie le feci del cane che muto s’avvia verso le case popolari, le quali sono tre palazzoni alti sparsi a caso nel vuoto, nel nulla. L’odore della pioggia umida permane nell’aria e nuvole scure di morte conquistano l’orizzonte. La giovane vedova s’appoggia al balcone e lenta prova un nuovo dolore. Tre ragazzini figli di nessuno in bicicletta sudati: il mistero avvolge le loro mete e la loro provenienza. I campi sporchi di merda condominiale e i condomini sporchi di fango solidificato che si fa poltiglia e terra sporca col ciclo del tempo. Il tempo non esiste. Tre operai magri come olmi attraversano la rotatoria e ignorano la bimba scura d’occhi e di volto che chiede la moneta. Ha un vestito sporco di sabbia – quale sabbia? Più in là la superstrada. Migliaia e migliaia di macchine segnano l’asfalto, limano i dettagli, le merde degli uccelli, i cestini stravuoti. In silenzio un aereo se ne va. Un altro, più in alto. La brezza passa nei cornicioni devastati della colossale fabbrica dismessa. È deceduta dieci anni fa. Un manifesto del circo di Moira Orfei di dieci anni fa guarda i propri colori fluorescenti perdersi nel fiume di particelle impercettibili che solcano il nulla. Ogni tanto passa un muratore che lavora in nero nel cantiere di ******. Una A cerchiata e un sole delle alpi vicini sul muro: loro non hanno la forza di cancellarsi a vicenda. I loro rispettivi autori saranno lontani nel loro nulla quotidiano gonfiato di ipocrisia. Il sole scotta da dietro le nuvole gonfie. Un ubriaco crolla non so dove. I condomini crollano a pezzi. Le crepe si dilatano con ogni nuova scossa. Un generatore degli anni dieci sta in mezzo al canale artificiale che non c’è più, solo un deserto di sassi. Una magliettina dei cinesi da donna in terra da chissà quando, le paillettes si disintegrano lente lente. Lattine, lattine, bottiglie, lattine. Forse il sole sta tramontando e forse questa è la sera. In lontananza si accendono le luci della centrale elettrica, quasi irreali. La strada è umida e bagnata a tratti: ha piovuto? Il marciapiedi s’interrompe davanti alla recinzione dei vecchio magazzini abbandonati. Un barbone saluta da dentro, sepolto dalle erbacce. Senti i sogni morti cadere ininterrotti nel fischio continuo che viene da là dentro: nessuno ci entra dagli anni novanta. Da dietro le tendine di nylon rosa del terzo piano delle case popolari esce a stento una melodia pop commerciale d’interferenza. Un ragazzo col cappuccio. Un albero bruciato. Un camper depredato. Il discount pieno di vuoto.
E io chi sono?
Lontano, lontano, qualcuno ti aspetta.
Non ditemi che
non avete tempo.
Non commettete
il mio stesso sbaglio.
Soffermatevi un poco,
procuratevi inciampo,
per capire a fondo,
contemplare un dettaglio.
Respirate e, vi prego,
tacete un istante.
Ascoltate il vuoto
cantare al Mistero.
Scoprirete stelle
che vincono il buio,
scoprirete fiori
spiccare nel verde.
Ci avrete guadagnato
il profumo dei gelsomini.
Sapessi il fresco pungente
che la primavera riserva
ai naufraghi dei temporali.
Sapessi la città nitida,
vivida di colori nuovi,
dettagli inattesi o riscoperti.
Sapessi le forze lievi
che muovono i rami,
il planar fragilissimi.
Sapessi i riflessi infiniti
che anelano in coro agli occhi,
che riempion di luce la luce.
Sapessi le ombre nel verde,
le voci dei cipressi lontani
e le estati passate insepolte
Ma non sai,
giacché non ti lasci sorprendere,
giacché hai curato la Vita
– un mese fa.
Per il più grave fardello,
lo stupore della gioia.
Tra gli alberi distratti
e i rami leggeri
qui s’accarezzano
e si lasciano baciare
dal vento, sottile.
Tra ‘l grigio e ‘l verde
e ‘li aromi di remote terre
qui danzano in continuo brillare,
si mescolano, ruotano,
si confondono liberi
Ecco l’azzurro
immenso e immutabile,
silenzioso variabile,
scorre medesimo, mai equiparabile
e una nuvola sola,
piccola nel vuoto,
bianca si consola.
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