Un Luogo Comune

per non dare nulla per scontato

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20 agosto
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Osservare esausto

È facile vivere così.

Io, solo in mezzo alla gente, chiuso nel mio salviettone, con la croce avvolta intorno al  cuore, ascolto il profumo della  vostra cannabis e mi lascio deridere da tutta la mia immaginazione. Mi lascio deridere da voi, società delle 16:30, lasciata ad asciugare nelle fogne di una  città che ben diversa sarebbe, se solo non fossi  solo.
Non siete contenti della spremuta di confusione che mi avete estratto dalle punte dei capelli? Applaudite alla banda delle cause perse. Io del mare non ne posso fare a meno, ma la spiaggia la dovrei proprio incendiare, prima che sia troppo tardi, prima che cambi la luce,  prima che m’innamori di  voi.

Ho perso  De Gasperi in mezzo alla piazza; vorrà dire che mi metterò a succhiare tutte le caramelle del paese. E voi non potrete impedirmelo coi vostri riff ripetuti e la vostra  affettività marziale. Ma quale gelateria? Ma quale introspezione?!  È solamente esistere pallido sui muri, malato di  morte. È la sacrosanta e violenta libertà. È l’iconoclastica devastazione del  beach-club! Otranto sommersa dalle onde! Flutti eravate e flutti tornerete! E non c’è Protezione Civile che regga, c’è solo la mia preghiera che vi rovescia il centro storico. E Dio sorride della mia coscienza devastante, il Dio degli occhiali da sole, del proibizionismo e di tutti i santi. Dio sorride e nulla vi accade.

A voi non vi accade mai nulla, siete ancora lì, nudi in mezzo al nulla, terra inesistente, scorci immanenti; sottomarche di occhiali, smartphone samsung, esibizionismo celato e orecchini: è ancora tutto lì, fermo dove non l’avevo (mai) lasciato. Non mi siete (mai) piaciuti, ma ho fame di voi.

Ho deciso: morirò di pizza, morirò di spiaggia, di assalti alle mura e di lecca-lecca. Ma che flusso di coscienza?! È fighettismo infantile. È imperialismo economico della domenica. È che siamo malati cronici.

Solo il tramonto mi salva.

image

 

26 luglio
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Dal bosco sul colle

PICTU (38)

Inquieti

a prendere il sole

nel bosco,

dove osano le cicale.

Siamo grilli parlanti,

persi e raffazzonati

come i rami

appesi al cielo.

Per me è un miracolo,

per te non so.

di Pietro Raimondi

 
PICTU (37)

 

 

Crux Desperationis

Di giorni annoiati,

in una radura

ciclica.

 di Paolo Bontempo

PICTU (35)

 

Amico mio,

ci separa del filo spinato.

di Paolo Bontempo

 

PICTU (45)

 

Però lo

leggi dopo

a casa

 

Fotocamera: Olympus OM10

Pellicola: Lomography CN400 35mm

Mozzo (BG)

23 luglio
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Maledizione

Ventate di certezze

prese a calci,

frantumate,

devastate

da due occhi.

 

Non ci capisco

più niente.

 

 

57

02 luglio
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Da dove vieni?

E così, dopo averlo osservato fin dall’orizzonte, Chiara salì sull’autobus. Fatti tre passi intimoriti tra la folla, si sedette nel mezzo in un posto singolo, gli occhi fissi oltre il finestrino, quasi preoccupati, intenti a seguire il dispiegarsi delle cose sui marciapiedi del centro.

“Scusi, sa quando devo scendere per via Togliatti?”. Un fattore esterno all’improvviso aveva interrotto la sua contemplazione del panorama urbano in movimento, un fattore esterno dagli occhi chiari e dai capelli farfugliati, con la bocca leggermente aperta ed uno sguardo stupito, un bel fattore esterno insomma. “Oh, certo, è la mia fermata!”, annuì sorridente Chiara lasciando da parte il fastidio causato da qualsivoglia conversazione con un interlocutore sconosciuto. “Sa cosa?” – e il sorriso divenne risata – “Io credo proprio di essermi già sognata questa situazione. In ogni dettaglio”. Lo sconosciuto fissò lo sguardo per un istante, per poi partecipare alla risata. “Comunque alla prossima siamo arrivati”. “Grazie infinite”. Chiara appoggiò la mano allo schienale del sedile davanti e, alzatasi, si ritrovò di fronte alle porte dell’autobus. Lo sconosciuto era dietro di lei, vicinissimo.

Una volta scesi e percorsi i primi venti metri, Chiara si accorse che l’uomo di via Togliatti le stava ancora dietro. Con fare affannato accelerò il passo verso casa, lanciando occhiate dietro le spalle, nella vana speranza di vederlo imboccare una trasversale. Nessun altro nel raggio di trecento metri: il respiro di Chiara si fece più rapido, sempre più rapido, finché non vide finalmente casa. Era una situazione ansiogena, che spaventava e confondeva Chiara: era veramente malintenzionato oppure era lei a pensare sempre male?

“Scusi!”. Chiara si fermò impalata, con gli occhi spalancati, inquieti “Io non sono di qui, sa, avrei bisogno di una mano…” La ragazza corse per qualche metro, anelante alla porta di casa “…Non mi lascerà qui da solo!”. Come sentì questa frase, Chiara si voltò misericordiosa verso lo sconosciuto. La situazione si era spostata sul polo opposto: era lui in difficoltà, non lei. Un po’ per gentilezza, un po’ per istinto Chiara gli andò incontro: “Dove deve andare di preciso?” “Le sembrerà strano, ma non lo so”.

 

Chiara aveva cominciato ad apprezzare il parco solo dopo gli incontri con l’uomo di via Togliatti. Più che un parco, era un’aiuola fiorita in mezzo ad un’area condominiale, con qualche ragazzino d’atmosfera e delle scritte sui muri. Era un po’ che si vedevano lì in mezzo, per chiacchierare e passeggiare avanti e indietro, circondati dal profumo di gelsomino.
“Verrà a piovere…”, “Avevo notato. Mi piace quando piove a primavera, dopo un po’ ci si stufa del sole” “Hai ragione, nulla è più piacevole di riscoprire le cose che ti circondano”. Chiara sorrise con tutta sé stessa. Non sapeva nulla di quell’uomo. Non conosceva il suo nome, la sua famiglia, dove abitasse, perché era sempre vestito allo stesso modo e, a pensarci bene, non sapeva ancora dove dovesse andare di preciso. Lo vedeva senza orari, senza appuntamenti, senza aspettative, ma aspettava di vederlo per tutto il resto del tempo. Nemmeno lui sapeva nulla di lei: non sapeva quanti anni avesse, non sapeva qual era il suo colore preferito, non sapeva nemmeno della sua malattia. Lui non aveva contatti, telefono, indirizzo o altri riferimenti: semplicemente ogni tanto si calava nella sua esistenza senza preavviso, la liberava dalle ansie e la faceva sorridere.

Che tutto ciò fosse amore non era la sua preoccupazione. Chiara non si curava di cosa fosse l’amore. Naturalmente gli aveva dato la sua definizione da social network, ma ogni volta che pensava le si fosse presentato o lo aveva respinto terrorizzata, o, illudendosi di gioire, lo aveva accettato come nuda apparenza. Invece quest’uomo non appariva: quest’uomo era. Ed era lì per lei. Così trascorrevano i pomeriggi immersi nelle loro passeggiate, che non partivano in nessun posto e che non arrivavano da nessuna parte.

 

Il sole tramontava lento tra i condomini e proiettava nella luce rossa l’ombra della panchina su cui i due erano seduti. I gelsomini ormai saturavano l’aria, rendendo difficile abituarsi al profumo così forte. Chiara, con il volto illuminato per metà ed i capelli raccolti lungo la spalla opposta, interruppe il silenzio religioso del parco: “Ma dimmi: da dove vieni?” chiese innocente e stupenda. Lo sconosciuto, voltandosi per guardarla negli occhi, avvertì un brivido; ma quegli occhi meritavano la verità. “È difficile da spiegare, vorrei che tu lo potessi sapere senza dover passare attraverso le mie parole… Io sto vivendo un lungo viaggio, Chiara. Un viaggio attraverso il tempo. Io vengo da tra vent’anni. Vengo da dopo la crisi, dopo la guerra, dopo la fine della democrazia: saranno dei sistemi elettronici perfetti a governarci, un giorno. Per questo posso incontrarti solo ogni tanto, senza mettersi d’accordo, senza preavviso. Per questo sono sospeso tra te ed il mio tempo.”. Lei tremava, inquieta e sbalordita, con in volto un’espressione satura d’ansia. “Sono il primo navigatore temporale con un preciso incarico governativo.” – continuò – “Devo impedire ai malviventi di commettere gli omicidi per i quali verranno processati nel futuro. Per ora siamo in una fase sperimentale, e, ti giuro, mi piange il cuore al pensiero che possano interrompere gli esperimenti, amore mio…” Chiara, con gli occhi spalancati, stralunati, raccolse da terra una bottiglia di vetro. Avvertiva un malessere gelido, avvolgente, vedeva scomparire nell’ombra del tempo quello che fino ad allora era stato il soggetto della sua serenità. Avvertiva un tempo freddo, lontano, che scardinava il senso del presente e la sua personale tranquillità: il futuro trascinava quella presenza via da lei. Per sempre. Si sentiva confusa, agitata; non poteva accettare questa verità, non poteva, non era razionale, logico, ammissibile. Non oggi. Alzata di scatto la bottiglia la tenne sospesa in aria qualche istante, per poi frantumarla sul collo dello sconosciuto e scagliare ripetutamente i frammenti contro la sua gola. Avvolta dalla luce del sole, con i capelli imbrattati di sangue ed un’espressione incosciente, era bellissima.

 

* * *

 

“MINISTERO DELLA GIUSTIZIA. PROGETTO MINISTERIALE 4991: RAPPORTO. L’esperimento numero 25 di prevenzione criminale tramite buco temporale, eseguito sull’individuo Corazzini Carlo (CRZCRL13R09D612S), al fine sperimentale di impedire la realizzazione del reato di omicidio da parte dell’individuo Golgi Chiara (GLGCHR91C25C573Z), soggetto a disturbo bipolare, è definitivamente fallito. Al venticinquesimo esperimento è stato riscontrato come gli esseri umani in questione non abbiano mai seguito la linea temporale riconosciuta in precedenza, ma la abbiano condizionata con loro caratteristiche, indici di fragilità emotiva, quali: solitudine, inquietudine, aggressività, sofferenza, innamoramento. Al fine di evitare un dispendio economico sovrabbondante si è scelto di archiviare il progetto.”

 

20 giugno
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Notte

Finisce la fiamma,

il fuoco si spegne,

si esaurisce il giorno.

Qualche palpito ,

poi solamente braci

e freddo bastardo

lungo le braccia.

 

Notte che avanza,

cosa mi manca?

Solamente braci.

 

12 maggio
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La verità

Un bagliore, un’esplosione improvvisa di luce cauta si fa spazio tra le sagome buie degli edifici più lontani. Nessun tuono, nessun rombo, nessun suono la segue. Il vuoto si ridisegna dietro il lampione.
In una grande città giapponese, un ragazzo sui 24 anni passa una paglia al compare grassoccio, mentre sui sedili posteriori si siedono due ragazze appena maggiorenni, la prima bisbiglia qualcosa alla seconda, che ride con un movimento del capo in avanti e appoggia la borsetta succinta.
A varie miglia da qui, un fischio – forse un residuo di ordigni del controspionaggio sovietico – si spande nel tempo, risulta altalenante, ora lo distingui chiaramente, ora ti sembra di immaginarlo; a un tratto una di queste oscillazioni d’intensità sonora prolunga la sua componente più alta, che invece di ridiscendere, aumenta, aumenta, è vicino, vicinissimo, è lì, assordante, ti schiaffeggi le orecchie, urli, persiste, aumenta. Deflagra.
Il rumore di una sveglia portatile distingue i secondi di una cameretta per convenzione, illuminato da chiara luce pomeridiana, oltre ad esso, giù nel cortile, dei ragazzini stanno giocando gentili. P. sta in porta, piega le ginocchia fragili e molleggia sulle articolazioni, ancheggiando da destra a sinistra di moto armonico, sguardo fisso sul pallone, come quelli veri.
Inizia a piovere. Le gocce – oltremodo grosse, primato stagionale – devastano un campicello, sciolgono lo strato di terra nuova, messa lì per rifare il prato, disperdono i semi, annegano i boccioli, tutto scorre sulla terra argillosa, fottutamente impermeabile, che sta lì da sempre.
Una donna si volta sotto un portico, guardandosi alle spalle.
Corpi morti, corpi morti, corpi morti dappertutto, corpi morti che giacciono su campi di erbaccia grigia scura, sottile, infida. Corpi morti sugli aerei di linea, corpi morti in ascensore.
“Oh! Pé! Te conviene de girà ‘l cassone d’alincontrario! Ahò, me senti!? Ah, stordito de uno…” grida tendendo marziale il braccio nel frastuono del mercato un uomo di corporatura allenata e nel contempo devastata dal  lavoro, sudando anche le bretelle.
Una gigantesca folla si  divincola per le strade di una città mitteleuropea, qui, là, urla, s’agita, brulica, esasperata. Pugni e manifesti, volantini e voci megafonate, qualche lattina, bottiglie, cori incessanti, sgolati sulle stesse ritmiche. Nessuna domanda, se non un “Ricordati di me” spaurito. Bisbigliato.

“R., mi dica la verità, lei ha studiato? La verità”. Lo sguardo del docente esaurito e paziente sul banco di fronte alla cattadera, distante qualche metro, cade lieve e decisivo nell’interrogazione, la classe muta spia da dietro l’astuccio, senza far rumore. Lo studentello sbarbato ed arrogante nella sua ignoranza si guarda attorno, poi l’angoscia se ne va, sorride appena di soppiatto e risponde: “La verità, professore? La verità è che

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31 marzo
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Pioveva a Primavera

Ehi! Buona serata. Giusto per rovinarvi un po’ la giornata pubblico qui la mia ultima composizione musicale. Una riflessione bagnaticcia sulle cose che finiscono sotto la pioggia. (Aaargh! Fatelo  stare zitto!)

Ovviamente la qualità audio è tra le peggiori immaginabili, le mie abilità chitarristiche e la mia voce non sono da meno. Insomma vi ho proprio tolto ogni motivo per cui dovreste ascoltarla.

Piove così e le cose finiscono
ed è primavera ormai già da un po’.
Piove, ti dico, che il cielo è nuvolo:
questo è tutto quello che so.
Perché
piangono gli alberi
e chiedono miracoli che
non avverranno mai,
non per noi.

“Perché” – ti ripeto – “le cose finiscono?”
e ti disegno fantasmi per aria
tu mi ricordi che dietro c’è il sole
e la vita è bella perché è varia,
ma io
imploro una pausa
ed ho quella nausea che
annoia sempre te,
ma cosa è
che supera il tempo
e da senso al momento?

Tu me ne parli sempre
ed io non so cosa è,
né perché,
sono qui a guardar la pioggia
scorrere su di me.
“Ma perché?”

Piove da un pezzo e si è fatto buio,
io devo esistere e tu non sei qui.
Fuori le gocce si stringono e cadono
ed io capisco che sono così.
Perché
sarò concime
dopo la fine, ma tu
mi stringi forte sai
che è per noi.

Piove così e le cose finiscono
ed io non posso capire perché,
ma son sicuro che, se esistono,
un senso c’è, me l’hai detto te.
Così
crescono gli alberi
e sono dei miracoli che
non ho creato io.

DSCN9517

21 marzo
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La sera del ventuno

Tu sei lontana.

Gli alberi indaffarati si guardano attorno,

un bimbo in calzoncini fischia lungo la via

di dieci anni fa.

È poco una sola finestra

per guardare oltre.

Tu sei  lontana.

 

Una vecchia canzone stringe la sera

ieri era notte, oggi sorrido:

primavera è chiedersi,

ascoltarsi passare, senza fiatare,

senza che il vento smuova i rami.

 

Tu sei lontana

e c’è già la luna.

 

01 gennaio
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Non è l’ansia, è il cielo coperto.

(Tempo)

Non ricordo lo strano nome

di quel vento tiepido che ieri

scaldava l’inverno.

Dimmi cos’è che manca,

dimmi l’oggi che cos’è,

dimmi cos’era ieri!

 

Un velo di grigio rincorre

il tempo sprecato ed inciampa,

si taglia con la staccionata

le mani, si alza e fa finta

di niente.

 

(Non è l’ansia, credimi, è il cielo coperto.)

29 dicembre
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Attesa (analogica)