Un Luogo Comune

per non dare nulla per scontato

Archive for maggio, 2013

24 maggio
0Comments

In bicicletta il giubbino non basta, se fa così freddo

“Sì,

io mi sveglio la mattina

con qualcosa in cuore.”

 

Fuori gli alberi ghiacciano,

il freddo entra fin dentro

le ossa,

proprio lì: dove non lo

aspettavi.

 

Cosa mi chiedi,

luna?

Vuoi relativizzare

la mia orbita?

Vuoi abbandonarmi, solo

nel mezzo dell’universo?

 

No.

Lo spiega la candida nebbia

che si pone fra noi,

lo spiega la luce del cinema,

lo spiega una rosa caduta:

tu lasci un crepitio

a sobbalzarmi nel cuore,

a sussurrare

“Sei sincero?”

 

17 maggio
0Comments

Arte di Parole 2013: Racconti perduti e perdenti

Ogni anno, a Prato, viene organizzato il concorso letterario nazionale “Arte Di Parole” per giovani scrittori liceali. Tra i quasi mille partecipanti di questa edizione, spuntiamo io e dei miei amici. Visto che ormai le premiazioni sono concluse, ho chiesto il gentile consenso di costoro per la pubblicazione dei nostri racconti perdenti su questo blog da quattro soldi. Eccoli a voi.

In ordine i racconti di:

– Davide Gritti

– il sottoscritto, Pietro Raimondi

– Dario Bonati

– Paolo Bontempo

– Sara Moioli

Conversazioni

di Davide Gritti

Avrebbe mangiato, il pomeriggio, leggendo, gambe incrociate seduta sul piano in Corian bianco. Seduta sul piano di Corian bianco, pensò. Ogni sette pagine avrebbe inarcato il collo, alzando come una carrucola gli occhi all’altezza della metà della finestra, sul paesaggio semirurale.
La camera da letto di una coppia di trentacinquenni, l’età che, in un paese vecchio, sembrano avere tutti i giovani. Un letto che aveva sempre immaginato come quello di un racconto di Calvino: lui che scalda il letto di giorno, lei di notte, entrambi che cercano il calore del collega, nel rispettivo turno di sonno.
Forse non è un racconto, ma è Calvino. Calvino, che, capì per la prima volta, nel suo letto ci dormiva quando gli pareva.
La visione della realtà- per non fargliene una colpa- è d’altronde mediata da un grande quantitativo di filtri, lenti, vetri, pulviscolo da tapparella alzata, polvere sollevata, respiri, corpi.
Una amica residente, le telefonò da, Berlino al fine di domandarle non senza una finalità più soggettiva il clima sul tavoliere lombardo-veneto, a 215 metri sul livello del mare, che nel loro immaginario e background scioeconomico è certo l’Adriatico, o il Lago di Garda.
-5 gradi celsius, al sole.
Mentì molto. Si registravano almeno 10 gradi, all’ombra e alla luce di uno sguardo buttato ad un Oregon Scientific – non una cabina dell’istituto meteorologico- con termometro esterno posizionato sul terrazzino perennemente assolato a quell’ora.
Non voleva, davvero non voleva sentirsi dire qui a Berlino ci sono 0 gradi ad essere ottimisti, il cielo l’ho visto solo sul Lufthansa. Andremo a prendere caldo quest’estate.
Dandole una temperatura casalinga relativamente tanto bassa, la vanteria dell’amica non avrebbe avuto gran senso. Non è una vanteria, è dire per far sapere, è un’informazione che può non essere data.
Le dispiaceva un poco, forse, mentre fuori le gru si muovono più lentamente di quanto sembra, ma pensò che anche lei mentiva, forse.
Lei la chiamava correzione spontanea e si applica soprattutto ai dati quantitativi. Nelle frasi descrittive si possono utilizzare gli avverbi. Non c’era davvero tanta gente. Forse sono le 11.57. Non le 12, così in approssimazione. Sono le 17.05. Se l’appuntamento era fissato per le 17 e sono le 17 e 4, tipo. L’uso stesso della parola gergale tipo. Ti trovo tipo triste.

Avrebbe smesso, si disse abbandonando la conversazione all’autocompilazione dell’evento di meeting in aereoporto. Il terzo aereoporto per passeggeri lo-cost d’europa, se serviva vantarsene.
Capiva bene che non era più l’aereoporto, era un aereoporto1 creato ad hoc da lei. Sapeva di poter tramutare le cose. Attraverso il metodo introspettivo notò come il vero motivo non fosse la cattiveria.
Telefonò all’amica componendo il numero a memoria. Pare sia iniziata una gigantesca bufera di neve, mi stupisco che le comunicazioni non siano interrotte, ho sentito Mario in Francia e sta benone, per dirti, là fa caldissimo. Bevve pure questa. Aveva amici ricettivi, si fidavano e lei mentiva patologicamente.
Tentò di posizionare su una scala Richter l’ostilità dei genitori dell’amica per l’amica e ne trasse la conclusione che difficilmente fosse stata già messa al corrente del fatto che, perdio, si trattava del più tardivo anticiclone delle Azzorre degli ultimi 15 anni. Temperature stagionali in netto rialzo.
Ricalibrazione,riallineamento di dati, sensazioni e opinioni, oggetti e soggetti.
Quando in autunno si concedeva lunghe passeggiate nel bosco circostante sosteneva vi fossero aceri bellissimi, che poi diventavano castagni, la passeggiata successiva, ma era la stessa cosa, lo stesso albero.
La sua scarsissima conoscenza zoologica, mentiva a sé stessa, la costringeva a mentire, inventando alberi mai esistiti. Un amico di nome Amabile, conosciuto in un villaggio visto su una brochure. Tre giorni di quella che alle amiche diceva essere una rimpatriata-con-un-amico-storico all’anno passati seduta in posizione zen sulle panche della stazione.
-Serve qualcosa, signorina?
-Uno sportello di ascolto?
-Un amico di nome Amabile, connotati a vostra discrezione. Che sappia scrivere, però.
Era pronta al martirio per sostenere le più piccole menzogne.
Dal terrazzino di fronte un retriver partì a fissarla, o forse a fissare il vuoto specifico che tutti i cani sembrano avere come spazio vitale. La visione degli odori, il colore dei sentimenti altrui. Il fatto che per loro il tempo è davvero un fatto relativo alle loro necessità e che, quindi, una volta mangiato possono aspettare il nulla per ore, fissarlo e farci amicizia.
La rotondità ovattata dell’amore postale.

Ho trovato dei bellissimi post-it azzuri a forma di casa, pentagonali. L’effetto casa è apprezzabile solo quando il blocchetto è cospicuo, man a mano la perdita della terza dimensione rende tutto assurdamente schiacciato, come le case dei cartoni animati.
Spero sinceramente che le tue sensazioni in terra straniera siano positive. Riflettevo altrimenti sulle occasioni di vederci. Quando tornerà Gaia dalla vacanza probabilmente andremo a prenderla insieme. Dimmi che dopo averla accompagnata a casa torneremo in aereoporto, abbandonata l’auto nel posto meno assolato e consequenzialmente più brinoso e ghiacciato e gelato del parcheggio grande quanto un parco, e partiremo per il posto più imprecisato del voucher touristico. In questo momento spero tu possa piangere perché ti sto dicendo che andrei con te in qualsiasi luogo, anche a Leninogorsk, Kazakistan. I suoi 80.000 abitanti sono tutti impiegati nell’estrazione di zinco e piombo? La stessa Leninogorsk che fino al 1940 aveva nome Ridden? Tutto ciò come indice stazionario delle mie sensazioni positive verso di te. Mi accorgo solo ora di quanto sia ridondante dire “guardarsi negli occhi”, dal momento che non si può dire di due che guardano l’uno due diverse parti anatomiche dell’altro. Quindi “guardarsi” e basta. Figurati che m’immagino io e te a Leninogorsk in una osteria dove si parla coerentemente italiano e dove si stupiscono che tu ti chiami davvero Mario Rossi. Come è possibile, per dio, guardare negli occhi il mio Mario Rossi e sapere che è l’unico nel mondo a potermi dire “io sono quel ragazzo la cui unica gioia è amarti”, come il mio racconto preferito.
La tua genericità è ciò che mi atterrisce di più, che mi fa relativizzare tutto quello che provo per te. Il concetto tipicamente tuo che tutto è già successo, già inventato, già provato.
Allora perché mai amarmi? Allora perché mai dovresti partire.
Spero solo di essere ancora qui ad aspettarti, per partire al tuo ritorno.

Uno dei più devastanti blizzard dell’europa continentale avrebbe spazzato via l’esistenza della sua migliore amica e del suo innamorato. Si stava augurando un dirottamento.
Il cane sarebbe rimasto a guardarla, sorvolando sulla distruzione della sua vita.
Eppure ci sono delle volte in cui distruggeresti ogni cosa per poi sederti e aspettare che si ricomponga lo schema generale. Oppure distruggersi e vedere il sistema sopportare l’urto con noncuranza.

Quando il piano in Corian incastonato nel muro si staccò di botto piovendo sul pavimento una enorme onda di vibrazione si propagò coerentemente al suo imbarazzo per essersi tirata addosso il cibo e il libro che stava leggendo.
Dal pavimento poteva vedere la diffrazione prodotta dai doppi vetri, il pulviscolo tipico delle case aspirate di fretta. Poteva vedere quello stesso cielo in cui gli unici esseri viventi a lei affini avrebbero volato. Poteva udire un latrato rauco, spaventato, un disperato tentativo di aiutarla, o di far cessare nelle orecchie una vibrazione udita con migliaia di watt di potenza.

Avrebbe atteso il suo ritorno. Mai come ora, prostrata, aveva desiderato di riabbracciarla e confessare tutto, smettere di correggere i dati quantitativi, smettere di cambiare il meteo e mentire gratuitamente e soprattutto smettere di inventarsi Mario Rossi, quel Mario Rossi che non l’avrebbe mai portata via da lì.

Non adesso

di Pietro Raimondi

“Suor Francesca!”

Rumore di passi svelti e leggeri.

“Suor Francesca!”

La vecchia sorella, oltremodo sonnolenta, stringe faticosamente gli occhi, quasi per non precipitare nella profonda mattinata del convento. Qualche uccello canta dal cortile, in un volo di suoni alternati pressoché omogeneo. Agita un braccio verso la finestra e sfiora l’infisso antico; il gesto estremamente faticoso la costringe a lasciar cadere la mano sul pavimento. Qualche istante per tirarsi su, un primo sguardo alla luce e un segno di croce quasi clandestino.

“Suor Francesca! È ora di svegliarsi!”

“Sì! Eccomi!” La sagoma gentile di Suor Chiara s’inoltra cauta nella stanza, per avvicinarsi a Francesca ed aiutarla nei gesti del risveglio. “Sai cosa ho sognato, suor Chiara?” In risposta solo l’infantile silenzio della consorella più giovane, che fissa l’anziana, ansiosa di ascoltarla, nella luce candida e sacrale di cui la stanza è satura. “Ho sognato Santa Cecilia! Santa Cecilia che cantava al Signore! Sapessi quant’è bella la sua voce leggera, con tutti gli angeli del cielo che l’accompagnano! Ti dico che in vita mia non ho mai sentito musica più bella!” “Non ne dubito, Suor Francesca, non ne dubito.”

 

Intanto Maria, lontana qualche centinaio di chilometri, accende il piccolo televisore della cucina e si appoggia al tavolo, regge il caffè lungo con entrambi le mani e, un po’ gobba, lo sorseggia con espressione assonnata, gli occhi fissi sulla tivù. Mentre lei lotta per svegliarsi, passano immagini di qualche paese lontano: tendopoli, gente sdraiata su delle lettighe, bambini che piangono, donne che urlano di dolore. Le quali immagini, in questo contesto, non intaccano minimamente la sensibilità di  Maria. Accendere sul TG3 Buongiorno Italia alle sette è un gesto che fa per sforzarsi di iniziare la giornata, come pigiare l’interruttore della luce, scaldare il caffè, togliersi il pigiama e lavarsi la faccia. In questo senso una notizia di politica locale ha per lei la medesima rilevanza di una cronaca internazionale. L’audio della tele, tenuto sempre bassissimo, quasi bisbigliato, non ha altro scopo se non riempire il silenzio gelido dell’appartamento. Non è che non presti attenzione alle notizie, anzi, nient’altro la può distrarre, semplicemente a quell’ora non ha le capacità cognitive per accettare quel tipo di dati, ne sfrutta solo i colori per attivare più in fretta il cervello. Intanto le immagini passano, i servizi continuano ed una voce preoccupata continua a bisbigliare cose terribili da dentro il televisore, ma Maria non se ne può accorgere. Non adesso.

Solo alla prima chiamata di Fabrizio, Maria realizza la portata delle notizie che prima aveva ascoltato. “Hai sentito cos’è successo?” Sì, lo aveva sentito, lo aveva visto, ma solo adesso capisce realmente di cosa si trattasse: “Sì, è terribile, ma sai – continua – sai se è stato riscontrato qualche caso anche qui da noi?”, “Sembra di sì.” Maria tace. Queste ultime tre parole sono state il vero discrimine tra la quotidiana mattinata di routine e l’evento inatteso e struggente. Queste ultime tre parole, farfugliate nella cornetta, la hanno caricata di un peso tutto nuovo, inquietante e tremendo.

 

Suor Francesca non sa di preciso cosa sia un televisore. Le sorelle ne parlavano oggi lavorando: si era rotto quello nel seminterrato e, non sapendo a chi rivolgersi, avevano deciso di infischiarsene, tanto lo guardavano così raramente… Ma cosa ci sarà da guardare in un televisore? Lei è anziana, mica le sa certe cose. Entrata in clausura a diciannove anni, quando nemmeno si aveva il sospetto che potessero essere inventati aggeggi simili, ogni volta che la vita le ha dato qualche possibilità di vedere una trasmissione in tivù, per un motivo o per l’altro non l’ha fatto. Così di tanto in tanto sente parlare di televisione, ne riconosce l’esistenza, ma nel dettaglio non sa come e perché funzioni. La vita in convento non è qualcosa di etereo, in convento si vive di realtà. Ma la realtà si svela qual è: in convento il tempo esiste in funzione del suo termine e del suo origine, per questo è scandito dalla preghiera. In convento il lavoro esiste nella sua funzione vitale, dunque spirituale: è un modo diverso di pregare, di riconoscersi a vicenda e riconoscersi in Dio. Ma, ormai, tutto questo non ha a che fare con il mondo fuori. Francesca sa come è il mondo fuori, ma quello di sessanta anni fa: di adesso le restano la veranda, la campagna, il mare e qualche medicina.

 

“Le industrie farmaceutiche americane non sono state in grado di rispondere alla domanda in crescita esponenziale di vaccini. L’infezione  sta invadendo gli Stati Uniti”. “Cazzo” Maria fiata incredula. No, non è possibile. Non è possibile morire di quella roba lì. È una settimana che i telegiornali non parlano di altro ed è una settimana che lei non pensa ad altro. La Katia le ha detto che suo marito ha comprato mesi fa un bunker privato, Fabrizio non ha neanche i soldi per l’affitto di quello sputo di appartamento. Ma tanto a chi importerà qualcosa dei soldi, alla fine? La verità è che tutto le sembra così assurdo, così irreale che non riesce neanche a disperarsi. Prova solo paura, una paura totale, continua. La paura non è un’emozione a cui ci si abitua, se si ha paura non si ha pace.

 

Suor Anna ha finito i biscotti da sola, lasciando un po’ di pace a Francesca per riposarsi. Seduta di fianco al tavolo di legno scuro recita il Salve Regina sottovoce, ogni tanto alza gli occhi verso la scritta “Pax vobis” sopra la finestra per poi richiuderli tutta piegata sul rosario. Suor Francesca si sente rilassata, in pace con sé stessa: pregando dona al suo respiro affannato un ritmo costante, al suo cuore battito regolare, alla sua mente riflessione serena e soprattutto è convinta di non essere sola. Momenti come questi sono all’ordine del giorno, ogni giorno, ma hanno smesso di annoiarla ormai da anni, adesso si sente pienamente nella casa del Signore.

 

“Fabrizio? Fabrizio, sei in casa?”, “Sì, eccomi.” Maria tira un respiro di sollievo come riconosce la voce dell’amato. Lui la raggiunge in camera da letto e le accarezza la fronte, mentre le dice, con la voce bassa con cui si raccontano le storie ai bambini, che hanno chiuso anche l’ultimo campo di quarantena, che non c’è più spazio. “Ormai tutta la periferia diventerà un enorme campo di quarantena” sospira Maria. Fabrizio tace e la guarda negli occhi. “A volte mi sembra che tu non te ne renda conto.” La giovane sposa alza all’improvviso la voce, in un grido disperato: “Ma capisci? Capisci che non passa giorno? Non passa giorno che io non senta la morte?” Fabrizio resta in silenzio. “Si sono ammazzati tutti i nostri vicini, te ne rendi conto? Tutti! Siamo gli unici a esistere in un condominio di fantasmi, Fabrizio. Moriremo, moriremo, moriremo!” Maria scoppia a piangere e nasconde il viso all’ombra di un abbraccio. “Maria, io me ne rendo conto. So che è difficile da accettare, ma io sono disposto a vivere finché il virus non mi avrà distrutto l’ultima cellula. Ne vale la pena.” “Ne vale la pena di che? Di distruggersi nell’attesa di essere distrutti?”. Fabrizio guarda fuori dalla finestra chiusa e sbarrata, poi stringe più forte Maria. “Ne vale la pena anche solo per poterti morire accanto” dice quasi sorridendo. Maria deglutisce, si passa una manica sulle lacrime e sussurra a mo’ di presa in giro: “Dove la trovi questa vita?” “Tra le tue braccia”

 

Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza””. Padre Mauro sale dal convento benedettino giù in valle ogni domenica per dire messa. Suor Francesca una volta se n’era innamorata. Certo, era giovane e non sapeva nemmeno cosa volesse dire innamorarsi, ma era certa che quella domenica lei pensava specialmente a Padre Mauro, si chiedeva di lui quando non c’era e sussultava nel vederlo. La cosa durò qualche mese, in cui Francesca aveva pregato molto, ma poi, di domenica in domenica, padre Mauro tornò ad essere solamente il frate che veniva a dire messa. Dopo molti anni, confessandosi, gli aveva riferito anche questa cosa e tutti e due scoppiarono a ridere, senza un preciso motivo, solo grati a Dio di essere al mondo. Ripensando a questi fatti, Francesca sorride gentilmente dal fondo della cappella e torna ad ascoltare il Vangelo.

 

Un respiro, un vuoto inquietante ed un altro respiro. Tosse, tosse roca e violenta, che lascia la gola dolorante e che fa mugolare di sofferenza. Agitarsi, contorcersi con fatica disumana. Uno sguardo disperato al soffitto. Un assurdo alzare le braccia. All’improvviso il senso della morte. L’ultimo istante, gli occhi si spalancano per poi chiudersi, inaspettatamente.

Così, dopo una notte di sofferenze, le consorelle trovano morta la cara Suor Francesca, pallidissima nel letto, con le braccia lungo i fianchi e un sorriso, inatteso.

 

“Così ti stringo forte, grido, amore, cerco il bene nell’orrore e l’eterno nell’età”

(Baustelle – Radioattività )

Dono

di Dario Bonati

Alla nonna serviva la farina. Per la pasta serviva la farina. A comprare la farina ci andai io, ovviamente.
In fondo alla via che portava alla piazza, un’ampia curva verso sinistra nascondeva un piccolo negozio di alimentari. Più o meno verso la metà della strada, un omino imbacuccato in un vestito grande forse il doppio barcollava tra un caseggiato e l’altro cantilenando frasi sconnesse tra di loro.
Non capivo proprio se era pazzo oppure semplicemente c’era qualche persona invisibile nascosta in qualche vicolo laterale. Poi, accostandomi il più possibile al muro per non farmi vedere, lo superai. In un attimo, le luminarie preparate dal Comune si mostrarono sfavillanti e decadenti. Il riflesso di una bottiglia di vetro scivolò tra le mani dell’uomo. Allora capii.
È quasi Natale, signori.

* * *

Nel piccolo paesino circondato dalla piatta e nebbiosa pianura, un grosso edificio ottagonale si stagliava tra querce e antichi castagni. Era di un colorino giallo limone, ormai consunto dalle intemperie e che ben si accostava all’arlecchinata delle foglie abbandonate dall’autunno.
Era un vecchio Liceo classico che ormai contava solo tre sezioni per anno, salvo qualche eccezione.
Mancavano poche settimane all’antica festività della luce e della rinascita.
A girare per le strade eri soffocato dal perbenismo più antiquato simboleggiato dalle decorazioni sfavillanti. I centri commerciali eccedevano di regali colorati; signore di mezz’età lo occupavano alla ricerca di doni sempre uguali fra loro, mentre all’asilo nido i bambini preparavano piccole collane di pasta da regalare ai nonni durante il solenne pranzo. Gli unici Regali meritevoli di questo nome, anche se, a dirla tutta, erano un po’ bruttini.
In seconda ginnasio, l’insegnante di religione trascinava i poveri alunni verso l’importanza di questa festa ormai dimenticata. Era un piccolo curato venuto dal Trentino. Una barbetta rossiccio pallido incastonava un volto benevolo e spesso sorridente; gli occhi un misto tra uno sguardo sempre attento e un’ombra di riflessione che non veniva mai descritta in tutto e per tutto dalle parole.
Con il suo trascinato accento tirolese parlava di salvezza. Parlava dell’attesa che costituisce tutto l’Avvento e si sentiva sicuro. Sicuro e determinato, il tutto solo perché si era accorto che tra le 23 persone che si interessavano alle svariate forme che un pezzo di carta possa prendere o agli ultimi risultati della Serie A, ce n’era una, una sola, che sembrava seguire.
La prima cosa che notavi di Giulia erano i capelli. Fantastici. Probabilmente, quei riccioli così sinuosi e quel colore striato d’oro che ricordava l’ambrosia, li aveva creati Venere in persona. E poi, c’era un non so che di affascinante in quel suo sorriso, nobile e spensierato allo stesso tempo.
Spensierati e attenti, gli specchi dell’anima giravano per la classe a seguire quella danza di parole che il don metteva in scena.
Subito dopo il consueto appello mezzo falso e mezzo irreale, una parola era comparsa magicamente sulla lavagna, gesso rispettosamente color rosso.
Tempo.
Per prepararsi al Natale c’è bisogno di tempo. Di tanti giorni, sempre uguali, sempre banali. Un bambino piccolo sa che il giorno del suo compleanno arriverà un regalo, lo spera, ma l’abitudine degli altri anni lo fa giungere alla certezza. Sa tutto questo. Quello che non sa è cosa gli sarà regalato. Allora i cinque, dieci giorni prima del giorno tanto aspettato, continuerà a pensare a quel regalo. Solo così il regalo diventa qualcosa di più. Non è più solo un dono, ma il compiersi di un’attesa. Così è il natale, un regalo per dei bambini piccoli.
Le ultime parole della lezione terminarono offuscate dal suono opaco della campanella.
Giulia uscì dall’aula per ritornare a casa. Quella di religione era l’ultima ora del venerdì. Nel tragitto, poco dopo la scuola, all’ultimo piano di un piccolo palazzo sulla destra vide una finestra e dietro di questa un bambino, un bambino che sorrideva e la salutava. Rispose a quel cenno infantile quasi sollevata per poi non pensarci più. Entrò in casa scontrosa e senza salutare nessuno. Come potevano quelle parole così… vere, del don c’entrare in qualche modo con l’ingombrante fanatismo che opprimeva quell’abitazione? Tutti gli anni i genitori e la sorellina più piccola mettevano a soqquadro la casa per preparare un piccolo presepe. Così anche quest’anno ci sarebbero state grottesche luminarie e stinti addobbi in giro per il soggiorno.
Così anche quest’anno ci sarebbero state discussioni interminabili e silenzi pieni di astio per la voglia prossima allo zero di festeggiare l’inutilità fatta persona.
Qual è il senso?
È tutto un trafficare sottobanco di gioia e candore. Un mercato nero della pace.
Sono emozioni false, che nascono ogni anno e muoiono ogni anno. Così all’improvviso, non centra il tempo.
Mio caro Dicembre, non puoi nascondere tutto questo fango sotto un così sottile strato di neve. Non c’è un senso, nelle azioni umane. Perché fanno questo o quest’altro?
Siamo tutti sudditi di un monarca. E non si tratta del fato. Ossequiosi omaggi a sua maestà Ipocrisia Insensata.
Nelle ultime due settimane prima delle vacanze che le numerose interrogazioni facevano agognare, Giulia fu costretta per due volte al giorno a ricordare le parole ascoltate durante quell’ora di religione e a ripensare al suo dolore familiare. A costringerla era sempre quello stesso bambino che aveva incontrato quel giorno. Sia all’andata sia al ritorno c’era all’ultimo piano del palazzotto sulla destra quello stesso sorriso e quello stesso saluto. Ogni giorno.
Ricordava le parole del don sulle ore, sui giorni che sono necessari per avvicinarsi a qualcosa. Con quel sorriso e quel saluto era andata esattamente così. Piano piano li aveva assimilati, fino a renderli quasi indispensabili per iniziare e finire la giornata scolastica.
La nonna, che era a conoscenza di vita, morte e miracoli della maggior parte degli abitanti, le aveva raccontato di come una coppia di meridionali si era stabilita in quello stabile sulla destra. Il loro figlio soffriva di una malattia incurabile ed era sempre rinchiuso in casa. Non poteva uscire. Mentre i suoi lavoravano per permettersi l’indispensabile, la sorella maggiore che aveva già terminato gli studi lo accudiva.
“Questo è tutto quello che so”. Disse prima di mandarla a prendere la farina. Aveva iniziato a nevicare e per lei faceva troppo freddo. Largo ai giovani.

* * *

Uscita dal negozietto mi fermai sul primo di tre gradini che conducevano alla strada e assaporai la neve che veniva giù copiosa. Lo sguardo era un continuo su e giù dal cielo verso il suolo dove dolcemente, fiocco dopo fiocco una candida coperta veniva stesa. Un bianco vortice mi avvolgeva e mi accorsi di desiderare che quello spettacolo continuasse. In quel momento non poteva avere fine. Ad ogni falda che scendeva ne attendevo immediatamente un’altra.
L’incantesimo si ruppe appena abbassai il viso pronta per il ritorno. Decisi però di prendere un’altra strada e passai dalla scuola. Il tono giallo, incupito dal pomeriggio inoltrato, sembrava più spettrale del solito. Mi avvicinai all’ormai nota casa. Come sempre, il bimbo era lì. Sembrava molto stanco. Questa volta non mi salutò. Mi fece cenno di fermarmi e una serie di luci si accesero dall’alto dell’edificio fino al pianterreno. Il grosso portone di ingresso in rovere si aprì e una figura minuta si fece avanti consegnandomi un pacchettino.
“Questo è da parte di mio fratello, buon Natale!”
Non ebbi neanche il tempo di rispondere che subito si era già rifugiata nel calduccio accogliente della casa.
Tornata dalla nonna, le lasciai i pacchi di farina sul tavolo in cucina per poi scartare l’involucro del regalo. Una piccola statuina di Gesù bambino nasceva dalla carta. Le varie imperfezioni dimostravano che era stata creata a mano. I colori erano opachi e pennellati malamente, ma poggiandolo sul pagliericcio in mezzo alla capanna, ero commossa.
Finalmente, un senso. In quel presepe dove prima un’Assenza valeva più di tutte le altre presenze, ora c’è un senso, più piccolo e più grande di tutto il resto.

 

Noia Mortale

di Paolo Bontempo

Luce, luce? La luce, apro gli occhi e… non vedo un cazzo! A già, dimenticavo di avere quasi novant’anni, una moglie deceduta, pochi parenti, nessun figlio e… e una vista pessima. Abbandono il calduccio del mio lettino e mi accorgo di odiare i diminuitivi. Preparo il solito caffè decaffeinato, mi siedo sul divano invano, un minuto e mi rialzo, alzo gli occhi verso il calendario, il dottore! È un mese che ogni tanto ogni santo giorno mi reco (che brutto verbo) da lui, senza appuntamento, e la segretaria, dopo otto ore, mi urla (deve avere problemi di udito, ha il mignolo monco) che il dottore è stanco, di tornare un altro giorno. Ma oggi mi visiterà, me lo sento. Mi metto il pigiama, esco di casa. Sole, sole le ragazzine per strada vestite in quel modo che vergogna perché tutt’a un tratto codesto moralismo perché uso l’aggettivo codesto dev’essere colpa della mia professoressa dell’elementari che ricordi di merda di quella bellissima infanzia. Sale, sale la rabbia abbaiando nel mio cervello senza un motivo preciso senza che io me ne accorga ma affinchè io la constati e poi perché dico affinchè ha un suono così retrò e perché uso codesto aggettivo se non ne so neanche il significato. Chiudo gli occhi per non vedere nulla. “Buongiorno signor Cane” mi dice affettuosamente un bambino di nove anni, mio unico conoscente, “buongiorno amico mio” gli rispondo dolcemente affettandolo mentalmente, poi per farlo ridere sottovoce gli sussurro “Vaffanculo”(sta imparando tutte le parolacce, piano piano, una a ogni incontro, non ha fretta di crescere o almeno così mi lascia intendere quando non riesco a capirlo dato che avrà si e no all’incirca due anni e una madre extracomunitaria e un padre in forse). Non è che io odio la gente, le persone, mi ritengo solo personalmente più intelligente o comunque leggermente tanto superiore.
Bella Belluno di mattina adesso che è sera e fa un freddo gatto lo posso dire. Cammino per cinque minuti lungo un vialetto leggendo “AION” noto quotidiano di Noto, nota città Siciliana, regione italiana.
“Studio Medico” noto scritto fuori dalla porta, non importa se il nome del dottor non è esplicitato passerà qualche ragazzo con una bomboletta e correggerà il tutto con tanto di svastica finale. Entro, “entro le 19.30 il dottore la visiterà” esordisce la segretaria con una voce a dir poco, “Attenda, grazie” conclude con una voce altrettanto.
Erano le nove di mattina, avrei dovuto aspettare ore ben tre o anche di più se sapessi contare. Dato che non sono stato mai in grado di osservare, studiare, i meccanismi, i comportamenti umani (forse perché non riuscivo a spiegarmi neanche il mio), avevo portato il mio computerino portatile, per guardare un film. Optai per “Quel pomeriggio di un giorno da cani”, ma quando cliccai start il computer si impallò, spuntò una di quelle notifiche insopportabili, “si è verificato un errore”, poi andò letteralmente in tilt, una vocina di donna fastidiosissima continuava a ripetere “Attendere prego, attendere prego attendere prego attendere prego” STooop! Tirai un pugno al computer e lo gettai a terra. Che rumore Infernale. Alzai gli occhi e mi resi conto che non ero solo. Ben tre bambini con le rispettive madri, più un papà, leggermente scazzato, come direbbe mio nipote, che non ho. Il silenzio fu rotto da un “che cazzo vi guardate” che esclamai violentemente, facendo persino ridere i tre bambini di tre anni ciascuno, o poco importava, almeno a me, la loro età. Poi la situazione tornò normale. Mi toccò annoiarmi, provare dopo quasi 60 anni, o più o meno tanto non so contare o forse ne ho perso la voglia o forse non ne ho il tempo, ad aprire gli occhi, non nel vero senso della parola, come non direbbe nessuno. Un padre che abbraccia un figlio, una madre stanca e annoiata, incapace di uscire dalla schematicità della propria vita figli lavoro lavori di casa figli casa figli sonno figli, un’altra madre che si addormenta sulla spalla del figlioletto. (cos’è questa sensazione?). Volgo lo sguardo al muro, c’è una scritta in primo piano, disegnata sicuramente da un ragazzino: “Ciao”.(che cos’è questa sensazione?). L’atmosfera è adesso rilassata, nessuno ancora è stato visitato dal dottore, eppure sono passate già due ore. Alle 10 e 10 entra un signore, sulla cinquantina, evidentemente malato, ma ha la forza di salutare: “Buongiorno signor Cane” mi dice ma io non lo conosco io non so chi sia. (che cos’è questa sensazione?) Eppure come fa a conoscere il mio falso nome, o comunque, come fa a conoscere il nome con cui mi faccio chiamare da quel bambino mio unico amico e no non può essere il padre non ce l’ha oddio tutto questo aspettare tutto questo vivere mi sta cambiando . (che cos’è questa sensazione). I bambini hanno cominciato a giocare fra di loro, e ridono, e non pensano, e ridono. Una madre mi comincia a fissare, e non mi molla un attimo. Il cinquantenne mi sorride. Uno dei ragazzini mi chiede di giocare con loro e io..e io beh io, e io, e io? Io, così, con la stessa rapidità con cui cambio i canali del mio televisore, con la stessa velocità con cui penso una parolaccia, capisco che tutto quello che sto vedendo è sempre stato là, fuori , nel mondo in cui io abitavo, nel mondo che non ho mai amato che non ho mai odiato che non ho semplicemente mai avuto e cosa mi stava succedendo un’Amnesia io avevo già vissuto quello che volevo vivere io non capivo mi sentivo vuoto mezzo pieno pieno di sostanza vuoto di vita non avevo tempo da perdere dovevo andarmene fregarmene della visita uscire e scoprire vedere osservare una sensazione descrivibilissima mi assalì si…mi alzai di scatto, tutti mi guardarono, i bambini smisero di giocare, il cinquantenne risorrise come se avesse già capito le mie intenzioni le madri le madri beh non le ho guardate in faccia cazzo sinceramente, gridai: “è finalmente giunta l’ora! È finalmente giunta l’ora”, ma si aprì la porta, la segretaria mi guardò e disse: “Signor Cane, Il DOTTOR MORTE la sta aspettando!”.

 

Alibi

di Sara Moioli

 

Si sedeva scomposta sempre sulla stessa panchina. Forse ci andava nei ritagli di tempo di una vita disordinata. Fissava un dettaglio, una foglia, un mondo smisurato, pareva una strana statua assorta. Talvolta estraeva dalla tasca un piccolo quaderno rilegato in pelle e prendeva qualche appunto. Aveva una mano leggera e veloce e una calligrafia indecifrabile. Un viso dai lineamenti lontani, marcati, seri, belli, che confluivano morbidi nelle labbra dal disegno puro. Le sopracciglia lunghe e sottili incorniciavano gli sfuggenti occhi castani. I capelli corti sempre scompigliati parevano quelli di un bimbo appena uscito da un sogno. A volte le sfuggiva un sorriso vago da qualche pensiero.
La ragazza passava lì molto tempo. Aspettava. Senza orologio. Non fumava ma a volte pareva che le parole non le uscissero dalla mente e che avesse il desiderio di avere in mano una sigaretta e non una matita, per rendere fumo i suoi pensieri. Sospirava, chinava la testa, distoglieva lo sguardo. Forse in quei momenti le sovveniva un ricordo particolarmente tagliente. Forse la realtà infame squarciava la tiepida penombra dei sogni in cui amava accucciarsi.

Pareva che la vita della ragazza stesse tutta nell’aspettare – non in ciò che aspettava, di questo ero certa. Era lei stessa sospensione in cui il tempo si vestiva di ricordi, immagini, sogni, parole dette e sperate e dimenticate e brucianti, persone incontrate e fuggite, labbra, mani, scempiaggini. Era l’attimo tra un respiro e l’altro.
Ogni giorno mi affacciavo alla finestra. Speravo sempre di vederla. Quando non c’era sentivo una sottile angoscia tra lo stomaco e la coscienza, mi chiedevo dove fosse, perché non fosse lì, forse le era successo qualcosa o forse se n’era andata per sempre. Forse aveva finito le pagine del suo quaderno senza aver finito la storia che voleva scriverci ed ora vagava disperata senza sapere cosa fare. Continuare altrove, cominciare un’altra storia, andare altrove a vivere un’altra vita? Cercavo di distrarmi. Tornavo alla finestra. Mi scoprivo inquieta, accendevo una sigaretta dopo l’altra senza finirne nessuna – io fumo. Aspettavo. Con l’orologio. Quasi in apnea.
Quando finalmente ricompariva respiravo, mi accostavo al davanzale. Prendevo la matita, il mio quaderno, che era già – che era sempre – aperto sul suo ritratto e aggiungevo linee, sfumavo contorni, correggevo chiaroscuri. Mi piaceva guardarla. Mi piaceva chiedermi cosa aspettasse. Forse aspettava il coraggio di smettere di aspettare. Forse non aspettava affatto, forse pensava. Forse ricordava. Forse viveva. Trasformavo in linea ogni sguardo che riuscivo a cogliere, ogni gioco di luce sul suo volto. E smettevo di aspettare e di fumare.
Non so dire cosa mi piacesse di lei. Nei suoi occhi c’era un richiamo antico, di un colore che non riuscivo ad afferrare. Forse mi piaceva proprio il suo sfuggirmi, lì si celava la sua profonda libertà.
L’estate volgeva al termine. I passi dei mattinieri silenziosi scricchiolavano sulla brina. Una nebbia sottile consolava i pomeriggi e ciascuno si sentiva libero di abbandonarsi ai suoi piccoli vizi, grato nel profondo alla discrezione della prima foschia. Gli alberi si venavano di rosso, striando i boschi del loro bruciare eterno e quieto. Mi piaceva l’autunno. Amavo i suoi colori e i suoi grigi. Ma questa volta la tranquilla malinconia della stagione era turbata dal pensiero che avrei potuto non vedere più la ragazza per mesi e forse per sempre. Vedevo sempre più spesso rondini inquiete in attesa lungo i cavi dei tralicci, sempre più di rado la ragazza seduta sulla panchina. Eppure non avevo il coraggio di avvicinarla. Il ritratto non era finito, mancava un certo colore del suo sguardo che si ostinava a sfuggirmi. Ma doveva esserci: la sua attesa era diversa da tutte le altre.
Vagavo disordinata tra questi pensieri mentre aspettavo il treno per tornare a casa. Attraversai il parco come di consueto, ma questa volta quasi senza rendermene conto mi diressi verso il punto in cui la ragazza si sedeva – di solito evitavo di passare di lì per lo strano timore di vedere il mio ritratto andare in cenere. La ragazza era lì. Seduta scomposta sulla solita panchina, il piccolo quaderno rilegato in pelle, la matita sospesa tra le dita, le dita delle Grazie di Botticelli, i capelli scompigliati, l’espressione assorta, gli occhi lontani, dalla linea imperscrutabile, le labbra dal disegno puro. C’era una tale bellezza in lei – mi si gelarono il sangue e il respiro, la mia mente fu distolta da ogni cosa. Per un istante fui nel suo invalicabile limbo nebbioso, abissale.
Mi fermai fissandola. Non si accorse subito della mia presenza. Sollevò lo sguardo verso di me, in silenzio. Senza smettere di guardarmi negli occhi – ora più che mai quel colore mi avvolgeva senza farsi scorgere – chiuse il quaderno, lo infilò nella tasca interna della lunga giacca nera.
– Vuoi sederti?
Aveva una voce calda, profonda, che mi sciolse. Mi sedetti accanto a lei.
– Ti vedo spesso qui, sai, io abito nel condominio di fronte, sono una disegnatrice, faccio illustrazioni e qualche esposizione, se hai voglia di venire a bere un tè da me mi farebbe molto piacere, ti faccio vedere i miei lavori, se ti va naturalmente.
Le parole uscivano, uscivano, parevano infinite e riempivano l’aria con il loro suono precario e disordinato. Lei sorrise, un sorriso bellissimo che raramente le avevo visto, mi rispose con la calma che connotava tutti i suoi movimenti.
– Volentieri, mi piace molto il disegno. Io purtroppo non ho mai avuto un gran talento. Sono le parole il mio mondo, la mia vita e – aggiunse con un sorriso ironico, pieno di impliciti – anche la mia morte. Ad ogni modo – disse tendendomi la mano – io sono Silvana.
– Elena – risposi, ricambiando il sorriso.

Non so quanto tempo trascorse da me. Il pomeriggio sembrò una vita, la vita come appare nell’ultimo respiro, intensa, soffocante, breve.
Mi scusai per il disordine, lei sembrò non farci caso, anzi, parve a suo agio. La feci sedere nel salotto e la lasciai sola per andare a preparare il tè. Quando tornai la trovai in piedi accanto alla libreria mentre osservava i titoli e le suppellettili mischiate alla polvere, alle macchie di caffè bevuti in ritardo e d’inchiostro distratto. Sopra ai libri erano ammucchiati disegni incompleti, schizzi ormai irriconoscibili.
– Hai una bella libreria – mi disse voltandosi – questo è uno dei miei libri preferiti – sorrise sollevando una vecchia edizione di Una stagione all’inferno.
Parlammo a lungo. Disse di lavorare in un caffè del centro storico per qualche ora la settimana. Il suo sogno però era scrivere. Amava scrivere e mi confessò – sul suo viso si dipinse un’amarezza sconfinata – che da qualche tempo non trovava le parole. Si sentiva imprigionata nelle stesse parole che non sapeva che scomporre e ricombinare all’infinito, sempre più vuote, sempre più vuote. Mi chiesi se fossero nuove parole ciò che stava aspettando. Mi chiesi se avesse senso aspettare le parole, mi pareva assurdo come aspettare nuovi colori, senza cercarli in altri luoghi, in altri occhi.
La invitai a tornare il giorno seguente, ormai si era fatto tardi ma mi avrebbe fatto piacere rivederla. Accettò volentieri. La salutai con un gesto della mano in cui si nascondeva l’esitazione dell’abbraccio – la medesima che percepii nel movimento sospeso delle sue dita.
Tornò il giorno dopo con un leggero ritardo di cui non si scusò. Questa volta non rimase in salotto e mi accompagnò in cucina mentre facevo bollire l’acqua. La mattina avevo cercato qualche tè particolare da offrirle e ne avevo comprato di tre o quattro diverse qualità. Scelse un tè orientale al gelsomino. Mi raccontò che era il tè che ordinava quando faceva colazione con una persona molto cara, qualche anno prima. Lo disse con nostalgia calda negli occhi ed io mi sentii onorata di essere messa a parte di quel ricordo. Forse aspettava la stagione giusta per tornare tra le braccia di quella persona cara.
Il tempo trascorse veloce. Cominciavo a temere che non sarei mai stata in grado di domandarle cosa stesse aspettando. Il mio ritratto sarebbe rimasto irrisolto. Aspettai il silenzio, chiusi la mente, sussurrai
– Cosa stai aspettando, Silvana?
La ragazza mi guardò – di nuovo il colore mi avvolse, denso, inafferrabile – sorrise, tacque.
– La domanda è cosa stai aspettando tu, Elena. La tua casa è piena di libri di colori di macchie di ricordi affastellati. Cose senza destino che appoggi nel disordine della tua giornata e restano sospese in un presente fatto di sistemerò domani e quel domani non arriva mai e i pensieri e gli schizzi restano tra i libri mai finiti. Tu mi osservi e mi ritrai e sei preoccupata di non finire il ritratto. Ma in realtà hai paura che non riuscirai mai a chiederti cosa sto aspettando, maledizione?, a finire il tuo autoritratto e ad andartene, finalmente, dopo aver sistemato e venduto questa casa.
Mi si fermò il respiro. Mi sentivo nuda e ferita. Come sapeva che la stavo ritraendo? Solo più tardi intuii nel suo squartarmi calmo una fuga profonda e ben nascosta. Stavamo entrambe fuggendo. Non sapevamo partire, temporeggiavamo giocando a nascondino in una selva di chiaroscuri dai contorni imprecisi.
Si alzò. Mi disse che mi aspettava da lei il giorno seguente. Rimasi seduta, ancora stordita e sanguinante. Passò dietro la mia sedia toccandomi lievemente la spalla e se ne andò senza voltarsi.
Il giorno seguente accesi infinite sigarette e le guardai consumarsi senza neppure portarle alle labbra.

Il calore affettuoso del tè sciolse il ghiaccio che percepivo dopo lo strano saluto del giorno precedente. Chiacchierammo tranquillamente per un po’, poi non ci fu altro che queste parole evase
– Sai, io al liceo non ero granché in latino ma mi ricordo alcuni dettagli che mi avevano colpito. Come la parola alibi. In latino significa altrove. Ogni volta che ti osservo dalla finestra mentre sei lì scomposta sempre sulla stessa panchina con i capelli scompigliati e il quaderno e quella maledetta voglia di avere una sigaretta tra le tue dita come le Grazie della Primavera di Botticelli mi appari immersa in un altrove lontano, maledettamente lontano. In un alibi, in un maledetto alibi. E non fai che guardarti intorno e sei nella tua terra di nessuno e non puoi vedere altro, non puoi trovare altro, nuovi colori, nuove parole, nuovi sapori di tè. Cosa ti manca per partire, Silvana?
La ragazza mi aveva osservato seria. Non era mai stata così bella. Mi pareva di annegare nel colore del suo sguardo – ma che colore era, maledizione, che colore era?
– Tempo fa affidai le mie armi ad una persona che non aveva gettato le sue. Da allora aspetto che torni a riportarmi ciò che mi appartiene.
– Non lo farà.
Tacque. Mi salutò con freddezza indecifrabile. Mi voltai e cominciai a scendere la prima rampa di scale. Sentii le sue braccia attorno al collo – profumava di gelsomino. Mi immersi nel profondo silenzio sacro di quell’abbraccio.

Non la rividi più.
Una mattina di fine autunno trovai una lettera. Era scritta da una mano leggera con una calligrafia indecifrabile.
“Cara Elena, sono partita. Per dove non ha importanza. Luoghi dai colori inimmaginabili, dove le parole hanno suono e fascino. Forse pubblicherò un libro, forse te lo dedicherò. Ti scrivo per dirti che non devi mettere in ordine casa tua né venderla. Vivi nel tuo caos. È lì che si nasconde ciò che cerchi. Ma parti comunque: ci sono luoghi dai colori inimmaginabili. E bar in cui servono ottimi tè orientali. Con affetto, S.”
Sorrisi. Perché mi aveva scritto quella lettera? Fissavo il foglio senza guardare le parole. Mi sentivo affogare nel colore del suo sguardo – da dove veniva, da dove veniva? Poi capii. L’inchiostro. Il tratto leggero e incomprensibile delle parole era quello di una penna stilografica. L’inchiostro aveva il colore grigio tenue della nebbia, del deserto quando si alza la sabbia. E del suo sguardo. Finii il ritratto, lo misi in tasca. Chiusi la casa – senza sistemarla. Partivo. Senza orologio, né valigie, né sigarette.

12 maggio
0Comments

La verità

Un bagliore, un’esplosione improvvisa di luce cauta si fa spazio tra le sagome buie degli edifici più lontani. Nessun tuono, nessun rombo, nessun suono la segue. Il vuoto si ridisegna dietro il lampione.
In una grande città giapponese, un ragazzo sui 24 anni passa una paglia al compare grassoccio, mentre sui sedili posteriori si siedono due ragazze appena maggiorenni, la prima bisbiglia qualcosa alla seconda, che ride con un movimento del capo in avanti e appoggia la borsetta succinta.
A varie miglia da qui, un fischio – forse un residuo di ordigni del controspionaggio sovietico – si spande nel tempo, risulta altalenante, ora lo distingui chiaramente, ora ti sembra di immaginarlo; a un tratto una di queste oscillazioni d’intensità sonora prolunga la sua componente più alta, che invece di ridiscendere, aumenta, aumenta, è vicino, vicinissimo, è lì, assordante, ti schiaffeggi le orecchie, urli, persiste, aumenta. Deflagra.
Il rumore di una sveglia portatile distingue i secondi di una cameretta per convenzione, illuminato da chiara luce pomeridiana, oltre ad esso, giù nel cortile, dei ragazzini stanno giocando gentili. P. sta in porta, piega le ginocchia fragili e molleggia sulle articolazioni, ancheggiando da destra a sinistra di moto armonico, sguardo fisso sul pallone, come quelli veri.
Inizia a piovere. Le gocce – oltremodo grosse, primato stagionale – devastano un campicello, sciolgono lo strato di terra nuova, messa lì per rifare il prato, disperdono i semi, annegano i boccioli, tutto scorre sulla terra argillosa, fottutamente impermeabile, che sta lì da sempre.
Una donna si volta sotto un portico, guardandosi alle spalle.
Corpi morti, corpi morti, corpi morti dappertutto, corpi morti che giacciono su campi di erbaccia grigia scura, sottile, infida. Corpi morti sugli aerei di linea, corpi morti in ascensore.
“Oh! Pé! Te conviene de girà ‘l cassone d’alincontrario! Ahò, me senti!? Ah, stordito de uno…” grida tendendo marziale il braccio nel frastuono del mercato un uomo di corporatura allenata e nel contempo devastata dal  lavoro, sudando anche le bretelle.
Una gigantesca folla si  divincola per le strade di una città mitteleuropea, qui, là, urla, s’agita, brulica, esasperata. Pugni e manifesti, volantini e voci megafonate, qualche lattina, bottiglie, cori incessanti, sgolati sulle stesse ritmiche. Nessuna domanda, se non un “Ricordati di me” spaurito. Bisbigliato.

“R., mi dica la verità, lei ha studiato? La verità”. Lo sguardo del docente esaurito e paziente sul banco di fronte alla cattadera, distante qualche metro, cade lieve e decisivo nell’interrogazione, la classe muta spia da dietro l’astuccio, senza far rumore. Lo studentello sbarbato ed arrogante nella sua ignoranza si guarda attorno, poi l’angoscia se ne va, sorride appena di soppiatto e risponde: “La verità, professore? La verità è che

11