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22 novembre
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“Fidati è qualcosa in più”

I Cani – Glamour (2013), 42 Records

Quando ho ascoltato questo disco per la prima volta, appena caricato su YouTube dalla band, sono rimasto turbato. Sarà che erano le undici di sera, sarà che ero stanco morto ed emotivamente sconvolto, ma questo disco mi ha veramente fatto un certo effetto. Diciamo che seguo I Cani dall’uscita del primissimo singolo e che “Il Sorprendente Album d’Esordio dei Cani” (2011) è uno di quei dischi che mi ricorderò molto a lungo. Nel senso che già in quinta ginnasio mi trovavo a scrivere sotto il banco “vedi Niccolò la gente non è il mestiere che fa”. Quelle atmosfere casarecciamente elettroniche, quel punk buttato sui sintetizzatori, quella voce fragile e musicalmente scorretta, quelle liriche fatte di panorami metropolitani e gioventù serali. Niente, o quasi niente, di tutto ciò in “Glamour”. L’album è pulito come melodie, arrangiamenti, composizione, è ben prodotto (da nientepopòdimeno che Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax) e posso dire che una delle prime cose che si avvertono è l’oggettiva maturazione del gruppo – che poi alla base dei Cani c’è Niccolò Contessa, giovine romano, tastiere e voce. Proprio questa maturazione si ritrova incisivamente tra i concetti delle liriche.

Gli adolescenti liceali, universitari, mantenuti, postmoderni, illusi ed emotivamente instabili del primo disco sono diventati grandi. Ora hanno un lavoro, un lavoro vero, magari si sono compiuti pure come artisti e sono in tour per tutta Italia (in senso direi meta-letterario, tipico del gusto modernista dei cani, l’utilizzo di personaggi altri da sé con il fine di parlare di sé o viceversa, ottenendo spesso volentieri canzoni che parlano di gente che fa canzoni): hanno capito che non si va avanti a Long Island e velleità. Ma le problematiche di fondo, che hanno infiammato in totale onestà e purezza i loro animi, sotto strati e strati di apparenza, sono rimaste. E l’idea di aver superato l’adolescenza, ma di non averle archiviate non fa altro che ingigantirle, fino ad urlare. Un po’ come nelle canzoni dei Fine Before You Came. “Fidati, è qualcosa in più”. Il problema non è più andare a scuola, sostenere gli esami, innamorarsi o avere vent’anni: c’è qualcosa che, avvicinandosi l’età adulta, resta, più profondo che mai. Ti viene quasi voglia di scappare per non sentirlo , ti viene voglia di “stare sempre così, avere cose pratiche in testa” per far finta che non ci sia.
Da una parte abbiamo “l’unica vera nostalgia” del sentimento sincero della giovinezza, dall’altra la consapevolezza che “non si può correre soltanto dietro ai sentimenti”, anche perché il mondo fa di tutto per opporsi ad ogni reale sentimentalismo: “Non c’è niente di twee in tutto il mondo”. E così, procedendo spesso per citazioni, da un intergenerazionale abusato De André fino ai “groppi in gola” dei Baustelle o ai già citati Fine Before You Came, quasi si volesse affidare alle parole di altri quello che si vuole dire, I Cani ci raccontano dell’invecchiare in tutti i sensi, di cosa volesse dire “arte” per Piero Manzoni (Storia di un artista) e di cosa vuol dire per le nostre pretese intellettuali da social network, ragionando sempre su quell’ardore di “sogni ambiziosi” che pulsa sotto a tumblr, sotto alle “mostre borghesi” e sotto alle foto profilo. Rapporti una volta considerati immortali che si sfilacciano, la paura che gli amici mi scordino, e di quelli che scordo io”. Le promesse di tre o quattro anni fa che si perdono. Un terrore di perdere tutto che afferra nella piena quotidianità, nella normalità (e dire che volevamo essere “tutto tranne normali), in mezzo ad un corridoio, all’improvviso: quasi una crisi di panico. La constatazione che ogni sogno passato, presente e futuro, ogni sincero desiderio che la società non riesce ad ammazzare e che si porge quasi istintivamente o, per riutilizzare questo termine, molto sentimentalmente, alle stelle, è destinato a svanire nel totale disinteresse dell’universo, che ha da badare alla sua assoluta relatività. “Tutto l’universo nasce e muore di continuo e se ne frega dei progetti e degli amori e dei miei fallimenti”: forse è questa la frase che fin dal primo ascolto mi ha lasciato addosso quella sensazione di turbamento. Per carità, il mondo è pieno di maestri del cinismo e del relativismo ben più tristi dei Cani, ma quella canzone, con quella melodia così ignorante ed allegra, dopo tutto il disco fino a questo punto, ha un nonsoché capace di colpirmi più in profondità di altre logiche del nulla. Eppure, fosse solo per questa frase, non si troverebbe la forza di alzarsi dal letto. Il brano finale, Lexotan, butta lì una cosa piccola, stupida e fragile: una speranza. Una speranza chiamata felicità.

È una felicità particolare: né una serenità edonistica, né una realizzazione totale: “E se dovessi avere sulla tangenziale la tachicardia cercherò di ricordare che nonostante tutto c’è la nostra stupida, improbabile felicità. La nostra niente affatto fotogenica felicità. Sciocca, ridicola, patetica, mediocre, inadeguata”. Inadeguata, perché Contessa non sembra vedere motivi per cui essere razionalmente felici, ma non può negare di esserci passato, di essere stato felice per sbaglio.Un po’ come “il momento in cui si ricomincia a respirare”, che Contessa dirà di aver espresso in Roma Sud. È dunque con una certezza fragile che si continua a stare al mondo, nonostante il mondo.

Questo è quel poco che sono riuscito a tirare fuori da un disco molto organico, ma comunque veramente vasto; quel poco che sono riuscito a leggere dietro l’hipsterismo, quasi pesante, quasi voluto a cui ”l’ennesimo gruppo pop romano” non rinuncia. I Cani, non senza fatiche, hanno fatto un disco più maturo, non necessariamente migliore, del precedente. Hanno dimostrato la solita capacità di tirarsi fuori per un attimo dalla tanto cara società postmoderna e di raccontarla con sguardo un po’ sfottente e un po’ disperato, come abbiamo già visto nel primo album; c’è infatti una precisa integrazione dei due dischi. “Glamour” inizia con il suono conclusivo del “Sorprendente” e termina con i rumori iniziali del primo disco, in perfetta ringkomposition.
Forse, però, in questo album c’è qualcosa in più. Si fa spazio, in mezzo a miliardi di arti e sociologie, una certa attenzione all’uomo, una certa attenzione all’individuo per quanto meschino, per quanto ridicolo. Forse esagero, forse mi esprimo troppo soggettivamente, ma penso che, più dell’umanità, i Cani stiano cercando l’uomo.

Il cane, del resto, è il miglior amico dell’uomo.

 

Per ascoltare il disco: cliccami

11 giugno
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I Baustelle: Introduzione e piccola analisi del “Sussidiario”

Ok, i Baustelle non li caga nessuno (se non qualche rarefatta eminenza pseudo-intellettuale suburbana), lo so anch’io; ma ne voglio comunque parlare, perché li ritengo, nel mio umile parere, una delle migliori realtà musicali attualmente presenti in Italia. Ma procediamo per gradi: si parte dalla presentazioni. I Basutelle (lett: “lavori in corso, cantiere” è un nome deciso aprendo a caso il dizionario tedesco) sono un gruppo Italiano originario di Montepulciano (Siena) formato da Francesco Bianconi (voce, chitarra d’accompagnamento, pianoforte); Rachele Bastreghi (Seconda voce, Tastiere e Synth vari, percussioni); Claudio Brasini (Chitarra solista). Fanno indie-pop-rock d’autore, o qualcosa del genere, ma non sono bravo con le classificazioni, diciamo che fanno una musica molto variegata e abbastanza melodica, con forti influenze elettroniche, ma rimanendo fedeli ai classici strumenti acustici. Sono in circolazione dal 2001, hanno pubblicato sei dischi, di cui l’ultimo nel 2010. Vengono fuori da un panorama artistico parecchio interessante e, perciò, hanno ottime influenze: questo è uno dei loro meriti principali. Presentano melodie DeAndreiane, arrangiamenti “cinematografici” alla Morricone, ma anche sintetizzatori anni ’80 e sonorità dance in stile Battiato, senza dimenticare i vari impulsi indie sulla scia dei Sonic Youth e un mucchio di altra roba. Come la musica anche i temi che trattano hanno radici profonde. Bianconi produce testi musicali, ma non banali, ispirandosi ai Poeti Maledetti e al decadentismo, alla letteratura del XX secolo, al Cinema d’autore (è infatti un cinefilo accanito), a altre esperienze musicali del ‘900, ma anche alla tradizione Cristiana e alla realtà del piccolo paese provinciale da cui proviene, criticandola da ateo, ma senza negare una sorta di appartenenza ad essa. Basta citare un po’ di titoli per farvi avere un’idea: La Canzone di Alain Delon, Gli Spietati, Mademoiselle Boyfriend, Il Liberismo ha i giorni contati, Sadik, Cinecittà… Insomma: un vero e proprio mischiotto culturale. Raccontare l’intera carriera musicale di un gruppo come questo riempirebbe un libro, mi limiterò a raccontarvi del primo loro disco, e chissà, magari in future puntate analizzerò anche i successivi.

Bianconi e Brasini cominciano a fare musica al Liceo: tirano su un gruppo sulla corrente degli Smashing Pumpinks etc. chiamato Subterraneans a cui si aggiungerà la Bastreghi dopo essere stata provinata alla meno peggio (volevano infatti una donna nel gruppo a imitazione dei Sonic Youth). Il gruppo cresce e nascono i Baustelle, dopo tantissimi demo riescono a pubblicare con Baracca e Burattini (etichetta indipendente toscana) il primo disco: Sussidiario Illustrato della Giovinezza. Il disco parla di adolescenza, ma non un’adolescenza qualsiasi (che coincide sempre con la guerra, per noi allegri ma anche morti, sia chiaro), l’adolescenza de Il Sussidiario è antiomologata e torbida, come la definisce lo stesso Bianconi. Il disco è molto elettronico, dominano i Sintetizzatori con frequente accompagnamento di chitarra acustica e chitarra elettrica solista; sonorità e ritmi prevalentemente pop.

Si comincia con Le Vacanze dell’83, ricordi di un piccolo guardone asmatico (C’era / la straniera del mare / l’asma non passava / io mi nascondevo / lì spiavo lei / e il mio amico del cuore / perché / si toccavano) con un bel ritornello malinconico tipicamente indie (Le vacanze dell’83 / sembravano sintetiche / lo scrivi sì / lo scrivi o no / il tuo romanzo eroti-/ -come sei finito a Rimini? / con le signore in bikini).

Dopo la spietata Martina, che parla di un amore che ha già il retrogusto del tradimento e del dolore, anche nel senso fisico del termine (tutto ciò significa / anche tu mi tradirai / un rasoio inciderà / le mie vene / ora / ridi / dietro lenti scure riderai), ci aspetta Sadik con i suoi versi maledetti e corrosi (Gusta sulle guancie il cuoio / tocca il golgota … incatena con la seta / squillo platino / chiuso dentro il bagno / nostro padre amplifica / le storie nere / è l’apostolo dell’uomo in maschera … quattro piume di cristallo / bava a Hollywood) e spezzoni del film erotico giapponese “Ecco l’impero dei sensi” con l’azzeccato “E adesso che farai?” in conclusione.

Forse la canzone più rappresentativa è Gomma: ritmo essenziale di basso e batteria con
spezzoni di esasperata vita adolescenziale, sotto tutti gli aspetti (Settembre spesso ad aspettarti / e i giorni scarni tutti uguali / fumavo venti sigarette / e groppi in gola / e secca sete di te … “Hello bastardo ci vediamo” / l’adolescenza che spedivi / sulle mie tenebre incestuose – osè … ed il futuro stava fuori / dalla new wave da liceale … e fantascienza ed erezioni / che mi sfioravano le dita / tasche sfondate / pugni chiusi / avrei bisogno di scopare con te). Il tutto coronato dal ritornello melodico (tremavo un po’ / di doglie blu / e di esistenza inutile / vibravo di vertigini / di lecca-lecca e zuccheri).

A seguito troviamo La Canzone Del Parco, melodia a scatti e un po’ noiosa, salvata dal bellissimo testo che racconta di due giovani amanti, e dell’intuito di eternità che hanno incontrandosi al parco (ricorda un po’ Lui e Lei di Guccini, se qualcuno ha presente) (domani è lontano / se mi ami ora /domani è lontano … sinceri se dicono “ti voglio bene” / il parco sorride … se lei e lui nuvole / di desideri / si toccano puri / il prato respira) che culmina nel finale, curiosa riflessione del parco stesso, impersonato, osservatore esterno, che non potrà mai godere delle gioie della vita e dell’amore, pur essendo immortale (e mi lascio prendere … da poeti poveri … a che cosa pensano / questi umani fragili? / A che cosa servono i miei rami stupidi? … posso solo esistere / in eterno vivere / senza avere gli attimi / degli amanti giovani / degli amori giovani).

Ed ecco la mia preferita: La canzone del riformatorio. Si tratta dei pensieri di un giovane carcerato, finito in riformatorio per aver aggredito la sua ragazza un anno prima sotto effetto di alcool e sostanze, che davanti al tempo che passa e non ritorna trascorso in carcere, si pente, e davanti alla foto della ex-morosa intona un canto di malinconia (questa è per quando / ti ho fatto male / quel pomeriggio / un anno fa / con il coltello nello stivale / mi facevo di / alcolici / andati a male … erano giorni / di vita dura / mi sorridevi / senza pietà / e non vedevi / che la paura / mi portava via / la libertà / di non amare / ed per questa / pena d’amore / che ti ho ferito … mi perdonerai Virginia? / E adesso mi manchi te lo giuro / le sogno la notte le tue grida / le tue cosce bianche stonano / sulle donnine pornografiche / appese dagli altri custoditi qui … Amore tra cinque anni dove andrò? / E tu chi sarai e chi saremo? / Fuori dal riformatorio / le vite perdute come gioia / passata per sempre come moda / cos’è / che ci rende prigionieri?)

A seguito troviamo Cinecittà. Il verso cantato si intreccia al recitato in un dialogo tra un’aspirante attore giunto in tarda serata per un provino di un film, che, quasi irrealmente, viene rivelato erotico dalla sensuale voce dell’analista. Da apprezzare il ritornello sempre malinconico che fa percepire la tristezza del tempo passato e l’importanza di valorizzare ogni momento (Non se la sente? / Se me lo chiede con quegl’occhi non mi riuscirà di dirle no/ e poi / stasera / sono sul punto di sognare … a Roma si muore d’amore / è la vita è che siamo stelle / è che siamo miseri / lalalala è / la vida agra [NB: nel primo ritornello dice “la dolce vita”])

Dopo troviamo Io e Te nell’Appartamento, un nome, un programma: una serata d’Amore tra semisconosciuti che finisce nell’abbandono eterno (ti conosco appena … io non so fare niente / volevo solamente / chiuderti / su da me / forever … e ci ameremo come i cani / la gente fuori non lo capirebbe mai / perduti nell’appartamento / non ci ritroveremo mai … domani forse me ne andrò / via da qui / via da te / forever / e ci ameremo come i cani / e tu non mi ricorderai negli anni mai / ma sempre meglio di morire / di una sera d’inverno contro la città / non ti sembra?)

Infine c’è Il Musichiere 999, l’inno del neo-cantautoriato maledetto. Riassuntivo, non solo del disco, ma un po’ di tutta l’esperienza Baustelliana, strofa zeppa di citazioni pressoché culturali pop e ritornello da una sola frase d’impatto “Build the modern chansonnier!” ripetuto con insistenza. Costruiamo il nuovo chansonnier, creiamo di nuovo uno stretto contatto tra musica e generazioni, cantiamo di noi, ce ne sarebbe bisogno. In Italia le esperienze sotto questo punto di vista sono state e continuano a essere molteplici (basti citare La Tempesta Dischi), ma per adesso sono solo Lavori In Corso.